“Ci sono dei giornalisti, come Piero Ostellino, morto a 82 anni, che sono delle bandiere. A Milano, la sua rubrica «Il dubbio», era un appuntamento fisso: sia per i seguaci, tanti, sia per i critici, che pure non riuscivano a farne a meno. Il suo primo mestiere non fu quello di giornalista ma di impresario delle idee, col Centro Einaudi di Torino. Il Corriere, che aveva diretto dal 1984 al 1987, era la sua vita e lasciarlo, nel 2015, fu per lui un dolore.
Ostellino pensava che «ci sono gli italiani e c’è lo Stato italiano», fra i cui compiti non figura quello di «moralizzare» la vita sociale. In Italia la parola «liberale» ormai significa poco, può essere usata per dire una cosa e il suo contrario. Per Ostellino rimandava alla «dottrina dei limiti del potere»: una precisa tradizione «guardata con sospetto perché parla di Individui, non di quell’astrazione ideologica chiamata collettività che è la rassicurante cuccia dei conformisti e ha riempito i lager dei totalitarismi del Novecento». Coi conformisti ingaggiò battaglia furibonda. Difendeva appassionatamente la collocazione occidentale dell’Italia, al fianco di Usa e Israele.
Raccontava queste idee e i suoi pensatori di riferimento (Hume e Smith, Popper e Hayek) con garbata erudizione, in un ambiente culturale spesso ostile. L’intellighenzia lo ignorava? Poco male, lui era un combattente felice, sempre in trincea in compagnia degli amati classici. Il suo ultimo saggio, Lo Stato canaglia (Rizzoli, 2011), è un compendio perfetto del suo liberalismo. All’antipolitica, per cui la soluzione di tutti i problemi sta nel sostituire gli esecrati «potenti» con gli onesti, Ostellino rispondeva con un ragionamento sulle istituzioni. Lo Stato «è il braccio armato degli interessi di chi ne detiene il controllo», chiunque egli sia: per questo la strada maestra è ridurne il perimetro, restituendo al popolo l’unica sovranità che conta, quella sulla sua vita. Non si concesse mai il lusso di dimenticare cos’era stato il comunismo e, forte dell’esperienza di corrispondente a Mosca e a Pechino, lo raccontava con un repertorio di aneddoti che sembravano storie alla John Le Carré, ma scritte da Guareschi. Per i «quattro gatti liberali», come diceva lui, oggi è un giorno triste”.
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