Milano 24 Marzo – Nel 2013, all’indomani dell’elezione in cui il neonato Movimento Cinque Stelle aveva raccolto il 25 per cento, ossia molto meno di oggi, Beppe Grillo ebbe un’intuizione fantasiosa. Si votava a Camere riunite per il presidente della Repubblica e Grillo mise sul tavolo il nome prestigioso di Stefano Rodotà: una personalità che apparteneva alla storia della sinistra e aveva poco da spartire con il M5S, ma che proprio per questo era un cuneo infilato negli ingranaggi di chi doveva individuare un’ampia maggioranza per eleggere il successore di Napolitano. Alla fine, come si ricorderà, le manovre fallirono e il Parlamento chiese allo stesso Napolitano la disponibilità a essere rieletto. Cosa che accadde. Tuttavia il protagonista imprevisto di quelle giornate fu proprio Rodotà. E lo fu in quanto personaggio anomalo, cioè fuori dai giochi: candidato dai Cinque Stelle, ottenne simpatie e voti in numerosi settori del centrosinistra. Di fatto contribuì a scompaginare i calcoli di chi riteneva di poter governare facilmente l’elezione. Certo, Grillo nel suo cinismo non diede seguito a quell’intuizione che avrebbe potuto cambiare il rapporto fra i Cinque Stelle e le istituzioni. Tuttavia quel colpo d’ala toma alla mente in queste ore in cui la tempesta perfetta provocata dal voto del 4 marzo non ha ancora consentito alcun approdo. Se l’elezione dei presidenti delle Camere doveva nascere da un accordo, come si dice, “di sistema”, in grado di coinvolgere almeno le forze premiate dal voto, la realtà ha smentito lo scenario ottimistico. Tant’è che si naviga a vista con pochi punti fermi. Al di là di come finirà la storia, se con Romani presidente del Senato e un Cinque Stelle alla guida di Montecitorio, con o senza l’astensione del Pd, colpisce la mancanza di fantasia di Di Maio, perfettamente calato nel ruolo di negoziatore di cariche istituzionali: un negoziatore con il bilancino che ha già mutuato il lessico nebbioso e un po’ allusivo dei partiti di una volta. Ha detto con chiarezza una sola cosa: che i Cinque Stelle non voteranno Romani (ma il centrodestra ha i voti per eleggerlo da solo, specie se il Pd si asterrà). Per il resto, l’operazione presidenze si svolge nel grigiore tradizionale. Il che è singolare per una forza che è arrivata a Roma vantando un mandato quasi rivoluzionario. Eppure proprio Di Maio, a un certo punto, aveva invocato per Camera e Senato “due presidenze di garanzia”. Vale a dire due nomi al di fuori delle fedeltà partitiche. Si trattava di una frase buttata lì senza convinzione: di solito certi propositi si attuano e non si annunciano. Grillo mise in campo a sorpresa Stefano Rodotà e oggi Di Maio avrebbe la possibilità, in un Parlamento bloccato, di avanzare la candidatura di un paio di nomi a effetto soprattutto a Palazzo Madama, magari scegliendo fra i senatori a vita. Due nomi su cui ad esempio il Pd avrebbe difficoltà a dire no perché li riconoscerebbe appartenenti alla sua storia più che a quella del Movimento. Cinque anni fa qualcuno aveva compiuto la mossa del cavallo, ma i tempi sono cambiati. Oggi i Cinque Stelle vogliono la presidenza della Camera per agitare la bandiera dei vitalizi, cioè per continuare la campagna elettorale con altri mezzi. E quindi devono trovare il modo, attraverso mezze intese mascherate, di lasciare via libera alla destra a Palazzo Madama. Tutto legittimo, ma il rischio è di passare in fretta dalla condizione di movimento “populista”, come tale minaccioso, a quella di partito assistenziale/corporativo, come tale innocuo.
Stefano Folli (Repubblica)
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