Di Maio, i 5 stelle e i rischi del plebiscito quotidiano

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Milano 30 Marzo – Andiamo al governo per cambiare il paese!» assicura una nota dei gruppi parlamentari del M5S pubblicata sul Blog delle stelle. Ma in calce, tra i commenti dei lettori, si legge: «Non so se prevarrà il buonsenso o la smania incontenibile di Di Maio di fare il presidente del Consiglio. Se dovesse prevalere questa spinta a fare un governo con Salvini e Berlusconi a qualsiasi titolo, cancello il movimento dalla mia vita. La realpolitik non è per me: prima la coerenza. Meglio altri cinque anni all’opposizione». Con varie sfumature, questa è l’opinione largamente prevalente fra gli elettori. Ma c’è un’altra presa di posizione, sempre sullo stesso blog dei Cinque Stelle. È di Andrea Roventini, indicato prima del voto da Di Maio come potenziale ministro dell’Economia. Il giovane professore scrive a proposito delle nomine nella galassia delle società partecipate e garantisce che il tema sarà affrontato con «competenza, trasparenza e onestà». Fin qui siamo alle consuete parole d’ordine. Tuttavia Roventini introduce un interessante distinguo: «Le nomine – sottolinea – non sono un’occasione per fare tabula rasa. Invece bisognerà pragmaticamente verificare i risultati ottenuti dai vertici uscenti caso per caso, considerando gli obiettivi e il contesto competitivo e normativo. Non si dovrà avere paura di riconfermare i manager che hanno ben operato e di congedare quelli che hanno deluso». In sostanza qui si colgono due indirizzi strategici opposti. Il primo dice «andiamo a governare»: con oltre il 32 per cento l’orizzonte non può essere un’altra legislatura all’opposizione (e pazienza se il Pci, ai suoi tempi, con percentuali non dissimili rimase all’opposizione per una trentina d’anni prima della “solidarietà nazionale”). Andiamo a governare promettendo moderazione. Il programma di Roventini, che sembra escludere qualsiasi tentazione di “spoil system”, è volto a rassicurare la galassia dei poteri pubblici, dalle partecipate all’alta amministrazione, ossia la spina dorsale dell’establishment. Come dire che i Cinque Stelle non intendono proporsi come forza rivoluzionaria e dunque anti-sistema, bensì come movimento riformatore. Tuttavia c’è un aspetto particolare che nessun partito riformista tradizionale deve affrontare: il rapporto assiduo e quasi nevrotico con l’elettorato. Non un rapporto da verificare di tanto in tanto nella stagione delle elezioni, bensì una sorta di plebiscito quotidiano. E gli elettori dei Cinque Stelle, nella loro maggioranza, non sembrano pronti ad accettare i compromessi del potere. Il che significa che una partecipazione al governo – comunque esclusa con Forza Italia – viene ammessa solo se garantita da Di Maio a Palazzo Chigi. E anche in tal caso c’è da supporre che l’operato del premier verrebbe filtrato attraverso un controllo giornaliero e pedante. Quando si cerca di interpretare il M55 e prevedere le sue mosse, si tende a dimenticare questa caratteristica che limita il campo d’azione di Di Maio e lo obbliga a rendere conto di sé a un movimento che non è disposto a perdonare i cedimenti. Forse nemmeno nel quadro del riformismo meritocratico adombrato da Roventini. Quindi si può escludere il rapporto con il centrodestra Salvini-Berlusconi. Ma anche l’eventuale incrocio con il Pd sembra possibile a una sola condizione: che i Cinque Stelle siano in grado di fagocitare il partito del centrosinistra, riducendolo a una specie di satellite. Il che rende poco verosimile qualsiasi accordo di tipo politico classico, a meno di non ammettere una lacerazione profonda del Pd.

Stefano Folli (Repubblica)

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