Il gatto Perpi non si è fatto avvicinare per un anno. Ma quando è stato male ha scelto da chi farsi curare
Lo vedevo gironzolare in giardino da circa un anno, aveva iniziato a presentarsi in estate, verso sera, attraversava il prato e si metteva a sbirciare in cucina, dalla vetrata che affaccia sulla veranda. Yuki la mia bellissima tricolore, tanto minuta quanto autoritaria, dall’altra parte del vetro soffiava ogni volta e lui la guardava quasi divertito, con i suoi occhi verdi sembrava dirle E’ inutile che ti arrabbi, c’è il vetro», ma la scena si ripeteva sempre uguale, sera dopo sera per tutta l’estate. Lui passava per un saluto, poi proseguiva il suo giro strofinando il muso contro ogni angolo, saliva su un muretto basso sul retro della casa, poi sul tetto del portico e da lì, scendendo per i rami bassi delle robinie si dileguava nella vegetazione. Ogni tentativo di avvicinarlo era stato inutile, non era proprio un gatto selvatico, probabilmente aveva una famiglia o quantomeno qualcuno che gli dava da mangiare, ma era diffidente, aveva l’indole del randagio ed era un maschio dominante, lo avevo sentito litigare più volte con altri maschi, marcava e pattugliava costantemente il suo territorio;l’avevo chiamato Perpi. diminutivo affettuoso di “super piscione”, da quando aveva iniziato a marcare anche il portoncino di ingresso e la vetrata del soggiorno. Era un bel maschio, intero, con la schiena tigrata nei toni del grigio e del nocciola e la pancia candida, il musetto bianco leggermente squadrato e gli occhi verdi, bistrati profondissimi, aveva lo sguardo furbo, da gatto navigato, poteva avere tre o quattro anni al massimo, un adulto nel pieno delle forze e con un appetito da leone a giudicare dalle piume e dai resti di carcasse che mi capitava di trovare in giardino da quando aveva iniziato a frequentarlo lui. In inverno si era fatto vedere più di rado, ma una domenica mattina, aprendo le finestre, l’ho visto uscire da un piccolo vano riparato in fianco alla veranda, doveva essersi appena svegliato e si stava stiracchiando beatamente al tepore di un timido sole invernale, non sapevo se fosse rimasto lì tutta la notte né da quanto tempo dormisse in veranda da clandestino, ma da allora, in una angolo nascosto, gli ho sempre fatto trovare una piccola ciotola con qualche croccantino, A volte sparivano, a volte no.
Perpi era imprevedibile, poteva passare tutti i giorni come non farsi vedere per settimane. In primavera la sua presenza era stata assidua ma all’inizio dell’estate era sparito, ho pensato che la sua famiglia si fosse decisa a tenerlo in casa o che si fossero trasferiti, ho pensato anche al peggio, finché una mattina, all’inizio di agosto, eccolo lì steso sul pavimento della veranda, con gli occhi sbarrati, il ventre infossato, coperto di sporcizia e con i denti digrignati, sembrava morto da giorni, era sparito per tutto quel tempo per poi venire a morire proprio a un passo da me. Gli si potevano contare le ossa una ad una, era l’ombra del gatto che era stato, chissà quale sforzo immane doveva avere fatto per trascinarsi lontano da casa in quelle condizioni e abbandonarsi in pace. Per la prima volta, dopo un anno di tentativi, mi sono chinata su di lui per accarezzarlo mentre rimaneva steso immobile, abbandonato; era una ben misera consolazione poterlo toccare solo ora, proprio quando non poteva sentire più nulla, ma sapevo di dovergli almeno una carezza, perché potesse portare con sé la consapevolezza che, anche se vagabondo o abbandonato o nonostante qualsiasi cosa gli fosse successa, qualcuno in questo angolo di mondo era in pena per lui e aspettava il suo ritorno. E, come se lo sapesse, era tornato davvero. Ho dovuto appoggiare la mano su quel muso stremato dalla sofferenza per capire, la sua pelle era ancora calda, era vivo, non si era trascinato a un passo da me per morire, era tornato per salvarsi! Non potevo credere che in quello stato ancora potesse respirare, il suo respiro era talmente debole che non gli si vedeva nemmeno il petto muoversi, ma impercettibilmente e contro ogni possibile spiegazione biologica la sua vita era ancora li, aggrappata fatalmente a quei deboli flotti d’aria. Avevo la sensazione che avesse potuto sentire i miei pensieri per tutto il tempo in cui era rimasto lontano, che sapesse che ogni sera prima di chiudere le finestre lanciavo uno sguardo all’angolo del giardino da dove era solito arrivare e che la luce di quelle finestre fosse stata per lui come un faro nel mare in tempesta, altrimenti perché venire proprio lì quando la sua casa non era quella? Perché lottare così disperatamente per quella carezza? A un passo dalla morte aveva scommesso su una famiglia nuova, una scommessa azzardata, pazza e coraggiosa insieme, ma ora che era lì non potevo che raccogliere il testimone, promettendogli che avrei fatto l’impossibile per sostenerlo nel suo passaggio ad una vita nuova.
Da lì la corsa dal veterinario, avvolto in una piccola trapunta anziché nel trasportino per non fargli male, aveva la febbre altissima, quindi le prime cure, le flebo, l’antibiotico e poi le analisi del sangue e la diagnosi impietosa, Fiv e Felv positivo, in quelle condizioni poteva non sopravvivere, era debolissimo, ma stava lottando e, a dispetto di tutto io avrei lottato con lui. Le prime terapie sembravano non avere alcun effetto, era rimasto sdraiato immobile, senza mangiare né bere per giorni, poi, poco a poco, aveva iniziato a stare meglio, si rigirava nel suo giaciglio, beveva qualche sorso d’acqua e mangiava qualche boccone, man mano che la febbre scendeva diventava più reattivo, più famelico e temevo che se ne sarebbe andato presto, non appena avesse recuperato le forze. Era pur sempre un randagio e, dopotutto. la spiegazione più logica al fatto che lo avessi trovato quasi morto in veranda era una semplice casualità, probabilmente aveva perso i sensi lì mentre stava tentando di tornare a casa sua, avevo paura di non riuscire a continuare le terapie, come poteva sapere che gli aghi, i farmaci e il tavolo di acciaio del veterinario non erano una tortura ma una cura? Ero certa che il mio piccolo vagabondo se ne sarebbe andato ancora una volta. Ma mi sorprese di nuovo e restò lì, steso sul tavolo di acciaio dell’ambulatorio, fece una cosa che non avevo mai visto fare a nessun gatto prima di lui, mentre il veterinario preparava l’ennesima iniezione, quando ogni randagio spaventato avrebbe cercato di fuggire, nascondersi o ribellarsi, lui mi guardò, infilò la testa sotto la mia maglia, la appoggiò sul mio cuore e restò lì, immobile, fino al momento di tornare a casa. A dispetto di tutte le dicerie sui gatti, lui aveva capito che lo stavo curando, che ero lì per lui. per salvarlo, aveva scelto di smettere di essere un randagio aveva visto le finestre illuminate e raggiunto il suo porto sicuro, aveva vinto la sua scommessa.
SILVIA BORDIN (Libero)
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