Milano 22 Aprile – Lunedì 23 Aprile alle 18, nel Salone da Cemmo del Conservatorio “Luca Marenzio”, di Brescia nell’ambito del Festival Pianistico Internazionale di Brescia e Bergamo si terrà una serata dedicata ad Arturo Benedetti Michelangeli, con la presenza del Musicologo Enzo Restagno, e di Bruno Giurato, caposervizio de Linkiesta.it.
In quest’occasione Giurato leggerà il testo che segue tratto da Linkiesta
(…)E se parlare di musica è difficile -in casi estremi impossibile, come “danzare di architettura”-, parlare di un musicista, significa più o meno trovarsi nello stesso guaio. Parlare di un grande musicista significa argomentare, raccontare, inseguire una macchia d’ombra concettuale. O stare in orbita attorno a una sorta di pianeta misterioso.
Ecco, Arturo Benedetti Michelangeli, per molti è stato uno dei più grandi pianisti del secolo, e per molti raccoglieva tutte le caratteristiche inesprimibili, ineffabili, o addirittura “mistiche”, della sua arte. Qualcuno lo ha definito un “asceta” del pianoforte. Senz’altro la sua vita segnata da sparizioni, il suo continuo negarsi, il suo carattere fatto anche di freddezze, ombrosità, ostilità, hanno contribuito -che lui l’avesse voluto o no, ma state pure tranquilli, lo voleva- alla costruzione di un mito. Il mito del musicista che spregia il mondo. Che va in cerca di una musica assoluta, su percorsi che solo lui è in grado di scrutare, da un qualche “luogo alto” leopardiano.
Durante una sue esibizioni, tra due spettatori si è svolto questo dialogo a voce bassissima: “eccezionale, ma un po’ freddo”. “È il freddo dell’Olimpo”.
Freddo? Forse. Olimpico? Forse. Virtuoso? Certamente. Michelangeli era in grado di suonare brani difficilissimi con una padronanza tecnica pressoché perfetta, con un dominio del suono che arrivava dal talento, sì, e anche da una mole di lavoro enorme. Per alcuni esagerata. Mesi per preparare un concerto che conosceva benissimo. Una volta un allievo lo sentì, chiuso nella sua stanza, suonare una nota sola per un giorno e una notte.
Quasi uno stereotipo di Genio romantico, Michelangeli. Che poi è il genio come lo descrive l’idealismo tedesco. Un uomo capace di indirizzare, grazie alla volontà, le forze irrazionali verso l’invenzione di un nuovo mondo artistico. Un creatore. Un nuovo dio. O un demone. La cui creatività filtra attraverso la scoperta di nuove, inesplorate, territori della tecnica strumentale. Tecnica “trascendentale” si diceva. Come Paganini al violino. Goethe diceva che in Paganini l’azione del demonio era chiarissima.
O Come Franz Liszt, autore appunto degli Studi di tecnica trascendentale, pagine pianistiche impossibili. Ecco. Quando Michelangeli vinse il primo concorso, nel luglio del 1938 a Ginevra, il presidente della giuria, Alfred Cortot (grande pianista di scuola tardoromantica/simbolista, un po’ snervato, morfinomane) lo definì il nuovo Liszt. ABM aveva 18 anni, ed era già considerato un genio. O, romanticamente, un demone.
In famiglia lo chiamavano “Ciro”, da Cirillino, personaggio del Corriere dei Piccoli. Arturo Benedetti Michelangeli era nato il 5 gennaio 1920 a Brescia, primogenito di Giuseppe e di Angela (detta Lina) Paparoni. I genitori erano umbri, e si erano da pochissimo trasferiti in città.
Cirillino, Ciro, era un Genio, certo. Ma come nasce un Genio? Ci sono geni precocissimi come Mozart, e geni tardi, come Joseph Conrad, o lo stesso Kant, che fino a 50 anni era, praticamente, un fallito. Un genio arriva quando arriva. O “fiorisce” -come dicevano gli antichi greci dei poeti e dei filosofi- quando fiorisce. E questo è un altro mistero.
Ciro era un genio precoce. Aveva iniziato a suonare il piano e il violino prestissimo, alcuni dicono -inverosimilmente- a due anni. Le cronache dei giornali bresciani parlano di una sua stupefacente esibizione, a sei anni. Aveva studiato nella sua città con Paolo Chimeri, e poi a Milano con Giovanni Anfossi. A 14 anni aveva preso il diploma al Conservatorio. Era già un pianista completo. Formato. Nel 1938 c’era stato un grande concorso internazionale a Bruxelles. Era arrivato solo settimo, probabilmente per una ripicca del giurato italiano del concorso. Ma si racconta che la regina del Belgio gli avesse regalato due gemelli d’oro, a forma di 7. L’amicizia di nobildonne, regine, cardinali, papi, è una costante nella biografia di ABM.
A 18 anni con la vittoria al concorso di Ginevra arrivò la nomina a professore di pianoforte a Bologna (successivamente Michelangeli insegnò a Venezia, e poi a Bolzano). Subito gli si spalancarono le porte di una carriera internazionale. Che per qualche anno fu rallentata dalla Seconda guerra mondiale. Ma durante la guerra arrivarono i primi contratti discografici. Registrazioni storiche per la filiale italiana della EMI, come quelle della Sonata di Beethoven in Do maggiore op.2 n.3, la Ciaccona di Bach rielaborata da Ferruccio Busoni, Le Paganini Variationen di Brahms, alcune pagine degli spagnoli Albéniz, Mompu, e Granados, e dei maestri del barocco, Scarlatti e Galuppi. Michelangeli non disdegnava gli autori contemporanei. Da giovane aveva un repertorio molto ampio, ma negli anni lo andò via via restringendo, attirandosi molte critiche.
Nel 1949, per il centenario della morte di Frédéric Chopin, Michelangeli fu eletto pianista onorario. Ma già nel 1948 era arrivata la prima tournée negli Usa. E già lì i critici musicali, notarono il genio, la capacità di modulare il suono del pianoforte, il colore del suono, come se fosse la voce di un cantante lirico. Michelangeli diceva: “i pedali del pianoforte sono i miei polmoni”.
Molti anni dopo, in un’intervista al New York Times, Michelangeli dirà che il piano gli era sempre sembrato troppo percussivo, e che il suo modello era il suono dell’organo o del violino. Più tardi, Alberto Savinio, scriverà: “Apparentemente Michelangeli suona il pianoforte; sostanzialmente egli suona più strumenti in uno, particolarmente l’organo nei registri acuti, la celesta e anche il flauto”. Ecco, la capacità di far emettere al pianoforte suoni che, per sua costituzione non potrebbe/dovrebbe emettere, è davvero “trascendentale”.
Negli Usa i critici notarono anche la sua tecnica impressionante, in grado di fargli domare, sotto la direzione di Dimitri Mitropolus, il Concerto op. 54 di Schumann con una sicurezza spavalda, in una serata dionisiaca alla Carnagie Hall di New York. E già alcuni cronisti notavano il suo atteggiamento strano sul palco. Slanciato, elegante, dai tratti nobili. Ma poco comunicativo. Altezzoso. Non concedeva bis.
E qui si apre il vasto capitolo della imprevedibilità di Arturo Benedetti Michelangeli. L’abbiamo detto: già la musica è difficilmente definibile, chi traffica con la musica, spesso, è una creatura bizzarra. Qualunque impresario musicale ne ha molte da raccontare sui lati oscuri/balzani dei suoi protetti, e non solo in ambito classico. Il gruppo rock dei Van Halen si caratterizzava, oltre che per la chitarra esplosiva di Eddie Van Halen, anche perché nei camerini non voleva cioccolatini M&M’s di colore marrone, pena l’annullamento del concerto.
Michelangeli era appunto noto perché non blandiva il pubblico. E i colleghi. Salvatore Accardo ha raccontato: «Non l’ho mai visto sorridere, se non una volta, mentre ci accompagnava a Torino in macchina. Ma era sempre molto burbero. Lo paragonavo a Buster Keaton. Faceva paura. Si avvicina e mi dice: “Ti faccio paura?”».
A quanto racconta l’amica Mya Tennenbaum, una delle costanti della sua lunga, e per vari fatti, travagliata carriera è stata trovare sempre una porticina per scappare via, senza trattenersi e senza ringraziare. Unica eccezione, un concerto a Monaco per gli 80 anni di Sergiu Celibidache, il direttore con cui si trovò meglio. Celibidache considerava Michelangeli “un iniziato”.
Ma, escluso il caso singolo, possiamo dire senza tema di smentita che Michelangeli era il terrore di chiunque lavorasse con lui.
Friedrich Edelmann, violoncellista della filarmonica di Monaco, ricorda che in occasione di prove di Michelangeli con Celibidache a tutti i componenti dell’orchestra era tassativamente impedito di parlare.
Il suo produttore alla Deutsche Grammophon, Cord Garben, ricorda che Michelangeli interruppe una riunione con vari funzionari della iconica casa discografica scagliando un vasetto di miele sul tavolo (“questo miele ha un odore terribile”). Sempre secondo Garben, Michelangeli, che aveva appena registrato, tra l’altro in pochissimo tempo, una versione magnifica del secondo libro dei Preludes di Debussy, mandò a monte una registrazione televisiva perché aveva una palpebra irritata. Rinunciando a un compenso a cinque zeri.
La possibilità che Michelangeli annullasse un concerto all’ultimo minuto, e anche con la sala piena, era la spada di Damocle che pendeva sul capo di qualsiasi organizzatore, impresario, produttore. Oltre che sul pubblico.
Celebre l’episodio londinese. Saputo che alcuni suoi concerti al Barbican Centre erano stati inseriti in un pacchetto turistico per italiani, Michelangeli (che in quel momento ce l’aveva con l’Italia per i motivi che vi diremo più tardi) annullò, comprando a proprie spese uno spazio su quattro giornali inglesi per annunciare il forfait e causando un putiferio.
Ma nella carriera di Michelangeli i concerti annullati, le registrazioni non fatte, le conseguenti penali da pagare, non si contano.
Nel 1975 la collaborazione (sarebbe stata un evento storico) con Carlos Kleiber saltò perché Michelangeli aveva visto lo spartito del direttore d’orchestra troppo pieno di segni rossi e appunti, e Michelangeli odiava le modifiche alle composizioni. Addio Kleiber.
Nel 1984 Michelangeli non diede l’autorizzazione alla pubblicazione del Concerto per pianoforte di Schumann, registrato con Daniel Barenboim, che conteneva una (una!) nota sbagliata. Che Michelangeli si era rifiutato di correggere. Addio Barenboim.
Quanto poi al rapporto di Michelangeli con i pianoforti, e con i tecnici e gli accordatori che si occupavano dei suoi, come il mitologico Angelo Fabbrini, siamo nel puro horror, con risvolti sadici. Quasi sempre sul luogo del concerto o della registrazione venivano portati due Steinway, e quasi sempre ci volevano giorni di controlli, messe a punto, smontaggi, rimontaggi perché alla fine si arrivasse al suono che Michelangeli aveva in mente per quell’autore e quella composizione, sempre ammesso che non annullasse tutto seduta stante, perché il caldo/il freddo/i condizionatori/i riscaldamenti/il sole/la pioggia, avevano alterato il grado di umidità della sala, modificando il suono e la suonabilità dello strumento.
Una volta si accorse che uno dei “re” su uno Steinway aveva un timbro diverso dagli altri. Dopo il complicato smontaggio di tutta la tastiera i tecnici si accorsero che c’era un rullino (un affarino di 12 millimetri guarnito in pelle) montato al contrario, ma la differenza è umanamente inudibile a tutti. Tranne a lui.
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