Lapo Elkann presenta l’artista americano BLAIR THURMAN a Garage Italia

Cultura e spettacolo

Milano 12 Maggio – Abbiamo incontrato Blair Thurman, artista americano che inaugura la collaborazione fra Garage Italia e Gagosian a Milano. Un dialogo a tutto campo su Minimalismo, circuiti per auto da corsa e film italiani.

Presente a Milano con il solo show a Garage Italia e anche a miart nello stand di lange + pult di Zurigo e Auvernier, Blair Thurman (New Orleans, 1961; vive a New York) ha trascorso alcuni giorni nel capoluogo lombardo. Lo abbiamo incontrato nello spazio di Lapo Elkann, che proprio con Thurman inaugura la collaborazione con Gagosian: così Garage Italia diventa anche un luogo espositivo.
Figlio d’arte – il padre era un artista, la madre ha diretto l’ICA di Boston –, Thurman ha lavorato per dieci anni al fianco di NamJunePaik, “videoartista coreano ma cittadino del mondo”; con lui ha fatto anche due Biennali di Venezia e ha imparato a lavorare su grandi appuntamenti. Affascinato dall’Italia, cita non solo i classici luoghi, ma soprattutto l’Umbria e in particolare Perugia. Gli piace viaggiare in auto, rapito dalle brevi distanze europee, se rapportate a quelle americane. Dialogare con lui significa assistere a un turbinio di aneddoti, racconti d’infanzia e giovinezza, e confrontarsi con un ampio ventaglio di riferimenti, dai circuiti di Daytona allo scrittore e curatore francese Vincent Pécoil, da artisti “freddi” come Donald Judd a pop come MartialRaysse. Ma iniziamo dal principio.

Mi spieghi il titolo della tua mostra, Nell’acqua azzurra?
Mi piacciono i titoli un po’ sciocchi. Così come mi piacciono gli account Instagram che hanno nomi strani. Per dire, il mio si chiama matureblond. Tornando al titolo: a Lapo piace soprattutto il blu. E da lì mi è venuta l’idea.

Come e quando hai conosciuto Lapo Elkann?
Lapo è un caso speciale, un collezionista che offre un grande supporto. Credo di averlo incontrato la prima volta ad Art Basel Miami.

Italia Independent ha una sede lì, se non sbaglio.
Esatto. C’era un evento in cui Lapo ha raccontato di suo zio, Gianni Agnelli, la storia della sua famiglia, e mio padre era mancato da poco, quindi mi sono sentito molto coinvolto. Succede così, che storie diverse che provengono da posti diversi a un certo punto si incontrino.

Succede la stessa cosa con i tuoi dipinti?
Mi piace come i miei dipinti si collegano l’uno all’altro nel corso degli anni. I primi sono come nonni che poi generano figli e nipoti. Tutto questo avviene all’interno stesso del mio modo di lavorare; voglio dire, non è programmato. Ma alla fine tutti i dipinti di una serie che si costruisce nel tempo lavorano insieme. Quando realizzo un dipinto, diventa parte di questa grande famiglia. Per me ognuno di essi è importante. Perché se non sei tu il primo a crederci, come puoi pretendere che gli altri credano in te e in quello che fai?

Cosa ne pensi di Garage Italia?
Mi piace il fatto che sia un luogo customizzato. Anche io cerco di continuo forme inedite…

Difficile pensare a un tuo quadro rettangolare e flat!
Quando ho trovato una forma che mi piace, la sfrutto in ogni possibile modalità, e poi quella stessa forma a un certo punto si esaurisce. Ed è finita. Succede la stessa cosa con i colori: ogni tanto torno al monocromo, perché alcuni colori è come se avessero una vita propria e in un certo senso non hanno bisogno di una forma.

Quali materiali prediligi in questo periodo?
Sono affascinato da queste vernici riflettenti che si usano sui tetti…

Quelle per far “rimbalzare” i raggi solari?
Esatto. E poi da materiali come l’alluminio e l’asfalto. L’unione di questi elementi dà una sorta di effetto anticato.

Da dove nasce questo tuo interesse per la sperimentazione con materiali tutt’altro che classici?
Beh, devi sapere che ero molto amico di Steve Parrino. Lui mi ha supportato tantissimo e vedere come letteralmente faceva i suoi monocromi è stato un grande insegnamento. Ho capito, ad esempio, che è fondamentale immaginare come saranno le nostre opere fra centinaia di anni.

Hai una formazione classica?
Mio padre era un artista e mia madre è stata direttrice dell’ICA di Boston. Però a me non interessava molto la scuola: ci andavo di giorno, ma la sera preferivo andare al cinema con mio padre.

Cosa ti piaceva vedere?
Mimì metallurgico ferito nell’onore con Giancarlo Giannini, e poi tutti i film di Bertolucci, e quelli di Fellini… Il mio preferito è TobyDammit [uno dei tre episodi di cui è costituito il film Tre passi nel delirio; gli altri due sono diretti da Louis Malle e Roger Vadim, N.d.R.].

Torniamo alla tua formazione “scolastica”.
Quando frequentavo l’Accademia a Boston era il periodo del postmodernismo. Si analizzavano le opere in maniera decostruttiva, come se si trattasse di un progetto scientifico. A quell’età vorresti essere uno sperimentatore, uno d’avanguardia, ma poi ti rendi conto che tutto è già stato fatto, sperimentato. Allora l’unica strada è guardare le cose da un nuovo punto di vista.

Le stesse cose, viste da un altro punto di vista, diventano altre cose.
Esatto. Ma non intendo dire che bisogna guardare diversamente quello che trovi nella biblioteca della tua Accademia. Io ho fatto un passo indietro, verso la mia infanzia, con un atteggiamento nostalgico che guardava, ad esempio, ai miei vecchi giocattoli, come se fossero delle madeleine. Ho capito che non sarei mai stato un “pittore”.

O forse lo saresti stato, ma come lo si poteva intendere in un ambiente minimal…
Sì, mi piace il minimal painting, così come mi piacciono i lavori semplici dal punto di vista grafico e nell’uso dei colori. Ma anche grazie alla frequentazione di Parrino ho improvvisamente capito che potevo realizzare immagini simili ma molto più eleganti, e questo l’ho capito proprio mentre collezionavo le piste.

Quali piste? 
Come quella che c’è sul soffitto! [Indica l’autopista elettrica allestita sul soffitto del ristorante di Garage Italia, N.d.R.].

Spiegami.
Sono come tessere di un mosaico: individualmente non significano niente. Esistono soltanto nel momento in cui formano un tutto. La stessa cosa vale per i pezzi di queste piste. E la stessa cosa vale per tutte le forme semplici, minimali appunto.

Possiamo sintetizzare così: in questo modo rendi il minimalismo meno freddo?
Esattamente!

Come hai lavorato per questa mostra?
A me piace lavorare on site, anche se nel caso di questa mostra si tratta in gran parte di lavori già editi.

Fino a che anno risalgono?
Il lavoro più vecchio, Mr. White, è del 2008.

E il più recente?
Si intitola Profondo Rosso ed è del 2018.

Ancora cinema italiano.
Certo, è un omaggio a Dario Argento! È un grande lavoro, alto più di due metri. Il suo “bisnonno” è un’opera molto piccola ispirata a Pininfarina e la “famiglia” è composta da 4-5 dipinti. Profondo Rosso ricorda un ragno, forse per i suoi quattro occhi.

Però in Profondo Rosso, nel film dico, non mi pare che ci sia un ragno.
A New York, quando si è giovani, si passa di bar in bar. Avevo alcuni amici scozzesi che bevevano come matti. Allora ho inventato la storia di un mostro che vola sopra i bar dall’una alle tre e mezzo del mattino, e diventa sempre più minaccioso. Quando acchiappa qualcuno, non lo vedi più.

Torniamo al tuo dipinto. Non è piatto, giusto?
Esatto.

È una tela montata su…
… su legno.

Sembra una sorta di evoluzione dei Poligoni Irregolari di Frank Stella.
Mi piacciono moltissimo i disegni di Stella. L’anno scorso sono andato a vedere la sua mostra all’NSU Art Museum di Fort Lauderdale e c’erano alcuni dipinti che avevano la forma di ippodromi.

È un minimalismo meno freddo di quello di Judd, ma più freddo del tuo. 
È una specie di amore astratto. Per questo amo artisti come Imi Knoebel o anche MartialRaysse.

Un pittore come Raysse nutre il lato più esplicitamente romantico del tuo minimalismo.
Sì, il lato romantico e introspettivo.

Ci sono altri dipinti recenti in questa mostra milanese?
Anche Spectre è del 2018. Ha la forma del circuito di Daytona.

Ancora piste!
Eh sì! Una volta ci sono andato e sono stato molto fortunato, perché stavano provando dei prototipi. Soprattutto il rumore è impressionante.

Spectre sembra fatto con tubi al neon.
E invece è acrilico! Ma mi piacciono anche i neon, perché riescono a creare una bella atmosfera in mostra.

Ancora romanticismo?
Con i neon in una mostra, sembra di essere dentro un bar. C’è un mood intimo, che mi piace molto.

 Marco Enrico Giacomelli (Artribune)

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