L’incompetente Di Maio è manovrato da Grillo. Salvini si è scelto la parte del prepotente. Ma la storia insegna: l’alleanza non durerà
Milano 14 Maggio – Sulle prime sembrava uno stupido scherzo, poi si è rivelato una tragica realtà. Sto parlando del governo che dovrebbe nascere quanto prima. Il frutto della colpa, pardon, dell’alleanza imprevista e innaturale fra due partiti che si erano sempre combattuti, insultati, sputacchiati, diffamati. Intendo i 5 stelle guidati da Luigi Di Maio e la Lega di Matteo Salvini. I lettori della Verità conoscono l’antefatto della tragedia: la crisi del Partito democratico, condotto nel baratro da una sconfitta elettorale. L’ultima eredità di un leader politico, Matteo Renzi, un tipo astuto che aveva ingannato migliaia di brave persone che votavano per il Pd. Molti non si erano accorti della sua debolezza mascherata da arroganza. Ma non il «Bestiario» che subito si era deciso a battezzarlo il Bullo o il Super Bullo.
Tanti anni fa, i miei maestri professionali alla Stampa di Giulio De Benedetti, sto parlando di personaggi come Carlo Casalegno, Paolo Monelli e soprattutto Vittorio Gorresio, mi avevano insegnato una regola che andava sempre osservata. Soprattutto da un giornalista principiante: nessun articolo deve puzzare di «io l’avevo detto». Dunque mi fermerò qui nel vantarmi di aver visto giusto sul conto del Bullo fiorentino e del suo Giglio magico, compresa la signorina Maria Elena Boschi, ancora oggi in carriera come sottosegretaria di non so che cosa.
Tuttavia una verità va detta: è stata la crisi fantozziana del renzismo a spalancare le porte al governo che potrebbe nascere tra qualche ora. E che riporterà sulle prime pagine dei quotidiani e nelle aperture dei telegiornali un residuato delle Prima Repubblica, un mostriciattolo che credevo scomparso per sempre: il pentapartito. «Di che cosa si tratta?», potranno domandarmi i lettori più giovani. Ecco la risposta: di un governo che si regge su cinque soggetti e non soltanto su uno o due. Dunque un esecutivo che rischia di andare a gambe all’aria se anche uno solo della cinquina decide di ripensarci e di mollare la combriccola. Nelle Repubbliche che precedono quella attuale, è già successo. E non si vede perché non dovrebbe accadere di nuovo.
Vediamolo questo quintetto, iniziando dai due protagonisti principali. Luigi Di Maio, il candidato premier grillino, ha l’aspetto piacevole del bel figlio di papà che ha deciso di abbracciare una professione lucrosa anche se a lui del tutto ignota. Domanda: doveva proprio scegliere un mestiere complicato e rischioso come fare il premier di un governo?
Me lo sono chiesto anch’io quando alla figura di Di Maio ho associato subito una parola terribile per un leader politico: l’incompetenza. Per dirla alla buona, Di Maio non sa quasi nulla di quanto dovrebbe sapere il capo di un esecutivo in un Paese stropicciato e difficile come l’Italia. È un ignorante e quel furbone di Beppe Grillo l’ha scelto proprio per questo. Nella certezza che sarà lui a comandarlo, passo dopo passo. In base alla convinzione che sotto il bel faccino e l’abito elegante non ci sia proprio niente.
L’altro socio del governo, il leghista Matteo Salvini, ha confessato a un giornalista di essere rimasto sbalordito nel toccare con mano le incapacità di Di Maio e della sua squadra. E si è domandato in quale modo riusciranno a far funzionare il nuovo esecutivo. Ma anche Salvini non è senza peccato. A lui va associata un’altra parola terrificante: la prepotenza. È stato lo stesso capo leghista ad affidare a sé stesso il ruolo del cattivo, pronto a distribuire legnate a tutti. L’apparire un manganellatore verbale è una forma di narcisismo o di involontario autolesionismo? Purtroppo lo vedremo soltanto dopo che il governo di due leader che non hanno niente da spartire sarà già in sella e pronto a fare sfracelli.
Il terzo elemento dell’alleanza c’è e non c’è. Stiamo parlando di Silvio Berlusconi, un padrino a metà del governo Di Maio-Salvini. Qui siamo di fronte a un enigma. Il Cav sente dire dai leghisti e dagli stellati che una delle questioni che affronteranno per prima sarà il conflitto d’interessi. In parole povere e un po’ generiche significa che chiunque si dedichi alla politica non deve possedere nessun media, a cominciare da un robusto apparato televisivo. Silvio non può esserne affatto contento. E di sicuro si domanda se debba uscire dall’alleanza o ritirare l’appoggio di cortesia che le ha garantito.
In che modo si comporterà il Berlusconi? Purtroppo me ne occupo da anni. E l’ho visto al lavoro tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta, quando conquistò la Mondadori e si preparava a divorare il gruppo di Repubblica-Espresso dove allora lavoravo insieme con Eugenio Scalfari e l’altro vice direttore Gianni Rocca. Silvio era un conquistatore insaziabile. Cercò di trattenere persino Claudio Rinaldi il direttore di Panorama. Non ci riuscì e falli anche con Barbapapà Scalfari. Ma aveva la ferocia del serpente boa pronto a ingoiare anche un bue. Ne rimasi così colpito che nella primavera del 1990 scrissi un libro pubblicato da Sperling e Kupfer: L’intrigo.
Oggi Berlusconi non sa che cosa decidere nei confronti del governo Dim&Salv. La figlia Marina, una donna super, il vero uomo della famiglia, lo vorrebbe più cazzuto e combattivo contro il nuovo governo. Ma altri consiglieri, come Gianni Letta e Fedele Confalonieri, gli suggeriscono prudenza: se si andasse a votare, per Forza Italia sarebbe un bagno di sangue. Dunque, a oggi dobbiamo considerare il Cav il terzo perno del pentapartito.
Il quarto pilastro è ancora ignoto. Stiamo parlando del futuro premier del governo Dim&Salv. Dovrebbe essere «un soggetto terzo», per usare la terminologia orrenda dei politologi. Ossia un signore, o una signora, che non appartiene a nessuna delle due parrocchie. Se il presidente della Repubblica, il silenzioso Sergio Mattarella, lo ha già scelto, siamo in presenza di un segreto d’acciaio. Un fatto insolito in una Repubblica dove tutti sembrano sapere tutto di chiunque. Dunque anche il «Bestiario» dovrà aspettare.
Ed eccoci al quinto pilastro del nuovo pentapartito. È un leader con un potere unico in Italia: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un signore al quale affiderei il mio portafoglio. Viene da una famiglia che si è trovata di fronte i killer della mafia. L’ho conosciuto ai tempi delle Prima Repubblica. Aveva la fama di un politico silenzioso, ma testardo, cocciuto, abituato a lavorare in silenzio. Un altro big della Balena bianca me lo descrisse con un’immagine che non ho più dimenticato: «Sergio è una goccia che cade in silenzio e scava nel marmo».
Molti pensavano che con il tempo, e con l’arrivo al Quirinale, Mattarella, che in luglio compirà 77 anni, si sarebbe ammorbidito. Invece il «Bestiario» l’ha sempre pensata nel modo opposto. Voglio vederli l’incompetente Di Maio e il prepotente Salvini alle prese con una goccia che scava nelle loro zucche e li obbliga a obbedire. Sappiamo che l’Italia non è una Repubblica presidenziale. Ma ne avremo un assaggio robusto. In caso contrario, niente pentapartito e tutti alle urne. Sotto un sole che morderà. Senza distinguere i manigoldi dai cittadini onesti, gli unici da sempre buggerati.
Gianpaolo Pansa (La Verità)
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