La storia di Alex, un musicista e un poeta di periferia

Le storie di Nene Milano

Milano 18 Maggio – Aveva i ricci anche a sessant’anni come la barboncina adorata di nome Claudette. Avevano i ricci perché legati da un tempo di solitudine e di fame, di condivisione ideale, d’amore silenzioso e profondo. Avevano i ricci di una ribellione nascosta, di un grido taciuto per pudore, di una stanchezza di vivere che li aveva resi uguali, negli occhi un rimpianto eterno per tutto ciò che non era stato e poteva essere. E c’era qualcosa di randagio, di abbandono, di ossessivo nella ricerca di cibo nei cassonetti, all’uscita dell’Esselunga, così vicina a casa, con gli scaffali grandi, le luci grandi ad illuminare un Paradiso di cibo proibito.

Ma Alex era un musicista, diplomato al Conservatorio di Milano. Un chitarrista, un bassista, un pianista così, all’occorrenza, per dare colore ed estasi ai Grandi, non importa se classici o rock..importava che le sue personalissime corde dell’anima vibrassero..e l’immedesimazione richiamava il miracolo.

Viveva nella casa popolare dei genitori, sopravvissuta ad una lenta agonia di povertà della famiglia, ma ricordava momenti di sfolgorante carriera in una casa discografica negli anni 80, poi miseramente fallita. Un viaggio in Brasile per ricominciare, il matrimonio con una bellissima brasiliana, il ritorno nella tana protettiva dei genitori alla loro morte, le difficoltà per rinascere.

“Vedi, qui, in questo angolo, seduto per terra, sognavo di suonare alla Scala, con lo smoking, i capelli ben pettinati, lo spartito di un Mozart e la musica, quella vera, con i velluti e i lampadari che neppure riuscivo bene ad immaginare, perché io alla Scala non c’ero mai stato..ma doveva essere bella, anzi bellissima. Andavo al Conservatorio con una borsa di studio del Comune e mi bastava imparare a suonare perché  era come mangiare colori, emozioni, per un mondo da scoprire e costruire dentro di me”

Quell’angolo guarda viale Suzzani da un piccolo balcone, in una casa buia, i muri segnati dalla muffa e dal tempo, un ingresso con tanti libri, spartiti musicali ammassati per terra, un servizio essenziale, la cucina che sembra un puzzle irrisolto, per la mancanza di molte piastrelle. Ma in camera, accanto al letto, in uno spazio privilegiato, tre chitarre, un basso, strumenti orientali e una pianola.

E c’era una pianta di gerani rossi davanti alla porta che apriva il cuore dopo gli scalini sconnessi, sbriciolati dall’usura e una lampadina che pendeva pericolosamente. Perché questa è la manutenzione che la MM ha per le case popolari. Una atmosfera livida, estraniante, ma Alex sapeva volare: c’era solo quel problema della fame, soprattutto per Claudette. Un’associazione di volontariato gli propose uno spazio dove poter dare lezioni di chitarra a pagamento e fu un’iniziativa che ebbe un riscontro insperato in quello scampolo di periferia abbandonata. Per gratitudine e gratuitamente avviò un corso per bambini autistici, un po’ impauriti, timorosi, ma poi sedotti e conquistati dalla novità. E c’era una tenerezza calda, un profumo di cose buone nello scambio di parole, di suoni, di intenzioni.

“Non preoccuparti – mi aveva detto – i medici mi hanno rassicurato, non è niente di grave”. Ma quel trascinare le gambe, quell’insicurezza dei gesti, quelle mani balbuzienti sulla chitarra, mi davano brutti presagi.

L’hanno trovato seduto con la chitarra in mano, solo, in quell’angolo del balcone, negli occhi l’ultimo sogno.

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