Milano 24 Maggio – Scompare il grande scrittore che raccontò vizi e virtù dell’America, e che non vinse il Nobel. Proponiamo il profilo del grande scrittore di Giuseppe Fantasia pubblicato dall’Huffington Post
Per uno come Philip Roth (1933-2018), gli ultimi anni di vita – al riparo da interviste e da sguardi indiscreti, al chiuso nella sua bella casa newyorchese nell’Upper East Side, intervallati, di rado, da cene in ristorantini del quartiere con i pochi amici di sempre rimasti – sono stati un po’ come quelli del pubblicitario di successo protagonista del suo “Everyman”: straziati dall’osservazione e dal deterioramento patito dalla società americana in cui viveva e da quello dei suoi coetanei, funestata dai suoi stessi tormenti fisici che sono terminati ieri per un’insufficienza cardiaca congestizia, all’età di 85 anni.
Il mondo che lo circondava – fa dire a Marcus Messner, protagonista di un altro suo libro, “Indignazione” – è tutto un susseguirsi incomprensibile di scelte accidentali e banali, delle volte comiche, che spesso “producono gli esiti più sproporzionati”. Uno di questi, ad esempio, è stata la scelta di un presidente come Trump, da lui definito più volte “un narcisista maligno e un bugiardo patologico”, “uno spaccone vendicativo e demente”. Un’elezione in qualche maniera già da lui immaginata – all’estremo – ne “Il complotto d’America”(2005), con l’elezione di un presidente di estrema destra nel 1940, “la storia e il terrore dell’imprevisto che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea”, come la definisce Roth bambino nel libro.
Da ebreo quale era, racconta la sua crescita in un contesto in cui le famiglie ebreo-americane venivano costantemente discriminate. Una tematica, quella dell’ebraismo, a lui ovviamente molto cara e che ritroviamo in molti altri suoi lavori. In “Addio, Columbus e cinque racconti” ad esempio – il suo debutto del 1959 – ci sono giovani ebrei di seconda o terza generazione che cercano di emanciparsi da quel ghetto in cui erano stati costretti a vivere dai loro genitori e cercano di adeguarsi al “sogno americano”. È ebreo il ragazzo che ha problemi con la sua compagna cristiana in “Lasciar andare” come lo è il suo personaggio più conosciuto, Nathan Zuckerman, il suo alter ego che ci ha fatto conoscere nel primo romanzo in cui compare, “Lo scrittore fantasma” (2002), protagonista del suo libro più venduto in assoluto – “Pastorale Americana” (1998 – pubblicato in Italia, come tutti gli altri, da Einaudi ) – dove incontra Jerry Leroy, che gli racconta di come la vita del fratello più grande Seymour – per tutti Swede – grande sportivo ed esempio perfetto del borghese americano – sia andata in frantumi. È ebreo Alexander Portnoy, protagonista di “Lamento di Portnoy”(2000), “il libro più scabroso di Roth”, come lo definì la stampa americana, il racconto personale che quell’uomo fa al suo psicoanalista prima dell’inizio della terapia, tra critiche alle tradizioni ebraiche ed erotismo allo stato puro.
Grande osservatore della società americana, di cui, come pochi, ne ha descritto vizi (tanti) e virtù (poche) con un umorismo nero e tagliente – dagli scontri razziali alle proteste contro la guerra in Vietnam al Watergate, dal perbenismo al puritanesimo esasperato – Roth è stato uno dei primi della sua generazione a parlare di sesso in maniera così esplicita. Il sesso – diceva – sconvolge le nostre vite solitamente ordinate, ma in ogni caso, “fa stare vivi con pienezza”, perché esso “è il mezzo per esplorare tutto”, dalla storia alla politica, dalla cultura alla propria identità.
Nel Lamento, brillante esposizione di tutto il senso di colpa che grava sul maschio ebreo degli anni Sessanta, sdogana la masturbazione, “una magnifica ossessione”, un atto che “un ebreo non doveva fare”, da lui fatta invece in qualsiasi maniera e con qualsiasi mezzo, persino con una mela (ma anche con una bottiglia del latte e con una bistecca di fegato), facendoci riflettere che uno come André Aciman, nel suo splendido “Chiamami col tuo nome” (da cui l’omonimo film di Luca Guadagnino), con la celebre scena della pesca, in realtà non si è inventato niente. Rifacendosi a Kafka e a La metamorfosi (ma anche a Il naso di Gogol), Roth arrivò persino a pensare e a creare un personaggio come David Kepesh che ne Il seno (2005) diventa un seno di settanta chili, esaudendo così un suo grande desiderio.
Il bello di Roth oltre a ciò che ci lascia (ben 31 libri, di cui 27 romanzi)? Il suo fregarsene, nella maniera più assoluta, di ciò che potesse pensare la gente, di lui, della sua opera o del tutto in generale poco importa. Lui diceva e faceva quello che voleva, tanto da decidere persino di non voler scrivere più negli ultimi anni della sua vita. Basta poco per scatenare “una caccia alle streghe”, come ricorda nell’ultimo capitolo della trilogia Americana (gli altri sono la già ricordata Pastorale e Ho sposato un comunista), “La macchia umana” (2005). La giustizia morale, spesso, non riesce a vedere oltre i propri occhi perché “a nessuno interessa la verità quando può imporre un certo destino a qualcuno solo attraverso un giudizio morale e una macchia indelebile”. “Non c’è niente da fare – disse – se non badarci il meno possibile”.
Il brutto? “Il non aver mai vinto il Premio Nobel della Letteratura”, risponderanno in molti. Ma cosa importa dei premi? Potrà consolare che tra i non vincitori dello stesso ci sono stati anche Proust e Joyce, ad esempio, ma anche Tolstoj e Borges, ma in fin dei conti, loro – come Roth – hanno vinto con la loro opera e con ciò che lasciano. Di sicuro, andarsene, come ha fatto lui ieri sera, proprio nell’anno in cui il Nobel per la Letteratura non è stato assegnato, è la maniera più rock per reclamarlo e farlo proprio. Uno come lui – “lo scrittore fantasma” – non poteva scegliere altra via per uscire di scena restandoci però a lungo, tra gli applausi.
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