Milano 26 Maggio – L’HuffingtonPost ospita l’analisi dell’ambasciatore Antonio Armellini che con efficacia chiarisce le dinamiche della politica estera. Di seguito l’intervento “Basteranno i tecnici –sia pure di grande valore– per tenere ferma la barra della politica estera del nuovo governo? Scegliere esperti estranei alle dinamiche quotidiane della politica per i dossier più delicati –fatto di per sé dirompente rispetto ai proclami della vigilia– potrebbe essere una ammissione indiretta di impreparazione, ma potrebbe essere anche –c’è da augurarselo– il riconoscimento che le complessità di un mondo interconnesso richiedono competenze vere e non solo elettorali.
Matteo Salvini rivendica una politica di “prima gli italiani”. È giusto, ma non è questo l’obiettivo di qualsiasi politica estera degna del suo nome? Essa presuppone una percezione condivisa dell’interesse nazionale, mentre l’identità debole e frammentata dell’Italia si ripercuote tanto sulla capacità di far valere le sue priorità quanto di stabilirne l’ordine.
A cominciare dall’Europa, dove l’esigenza di uscire dall’iperbole si fa pressante. I mini-BOT, la riforma dei trattati, i referendum sull’euro, i rimpatri di massa vanno bene –e lo si è visto– in campagna elettorale, ma quando si tratta di governare bisogna saper guardare alla realtà. La quale dice che i trattati sono modificabili a prezzo di procedure estremamente complesse, che giocare con l’Euro comporta dei costi finanziari insostenibili, che un conto è voler respingere i migranti a centinaia di migliaia e un altro è stabilire come (negoziando accordi con non-paesi come la Somalia o il Kurdistan, o con la Siria e l’Eritrea?).
L’alternativa fra integrazione e dissoluzione non è più una ipotesi astratta per l’Euro. Il proliferare di gruppi più o meno ristretti –Visegrad, “Sedici più uno” con la Cina, Baltici- lascia intravvedere un indebolimento pericoloso del tessuto connettivo dell’Unione. Il rilancio dell’integrazione voluto da Macron, con una sempre più riluttante Merkel al seguito, deve fare i conti con le remore minimaliste di olandesi, scandinavi e altri.
Il Consiglio Europeo di giugno dovrà dire se e come possiamo immaginare di lavorare per un’Europa che sia flessibile nelle modalità, ma coesa nei valori di civiltà e capace di coniugare solidarietà e rigore. Non sono cose irrilevanti per noi. Senza la gamba monetaria e fiscale l’Eurozona potrebbe diventare davvero una gabbia difficile da sostenere.
L’immigrazione continuerà ancora a lungo -non ci sono “Piani Marshall” che tengano con problemi per i paesi di primo arrivo (Italia, Grecia, Spagna)- si può solo coinvolgere l’Europa nel suo insieme. Perché da qui al 2050 sarà proprio quell’immigrazione a garantirne lo sviluppo compensando il calo demografico.
Trasformare i meccanismi di Dublino, come anche di Schengen, in un sistema veramente comunitario è dunque una priorità per tutti, sia pure da angoli visuali diversi: Marine le Pen e Viktor Orban possono fare finta che il problema non li riguardi, ma le nostre posizioni non potrebbero essere più distanti.
Abbiamo l’opportunità di ridare fiato al motore franco-tedesco in una direzione a noi più consona; o possiamo rinserrarci in una chiusura di rivendicazioni nazionali, rinunciando al quadro di mediazione permanente offerto dall’Europa in cui ciascuno, anche i più piccoli, può tutelarsi giocando bene le proprie carte. Berlino o non Berlino. Le prime mosse di questo governo non possono non preoccupare: la contraddizione fra le seduzioni lepeniste di Salvini e l’altalena filoeuropea di Di Maio deve essere risolta e le prime dichiarazioni di Giuseppe Conte non sono state sinora di aiuto.
Togliere le sanzioni alla Russia rappresenta un articolo di fede per la Lega, che guarda al suo elettorato di riferimento anche a rischio di sbagliare i conti sulla loro reale incidenza economica. Le sanzioni salvano spesso la coscienza di chi le impone e la loro efficacia cala nel tempo, ma la gravità dei comportamenti di Mosca crea alla NATO un problema che non è possibile ignorare. E tantomeno cercare di risolvere a livello nazionale. La Russia non è quella che si era pensata all’epoca della “fine della storia”, ma resta un partner fondamentale per molti paesi europei, a partire dalla Germania, ed è da qui che dovremmo partire.
L’Italia ha quest’anno la presidenza dell’OSCE, erede di quella CSCE che con l’Atto Finale di Helsinki aveva stabilito le regole che permisero la convivenza, e poi la dissoluzione, dei blocchi. La guerra fredda è finita, ma la necessità di ridefinire le aree di contatto e di influenza rispettive si ripropone, non fra nemici ma fra “diversi”; la Crimea e l’Ucraina potrebbero trarre vantaggio da una rivisitazione aggiornata degli strumenti di Helsinki, con la loro correlazione intelligente fra autodeterminazione dei popoli e integrità territoriale degli stati.
Non c’è solo Bruxelles. In Libia abbiamo raggiunto risultati importanti sui migranti e la politica energetica e ora, nel gioco delle parti fra Tripoli e Bengasi, rischiamo di essere presi in trappola da Parigi. In Iran, ci siamo a suo tempo chiamati fuori dall’esercizio che ha portato all’accordo sul nucleare, ma abbiamo un interesse fondamentale che venga recuperato dall’Ue. Il che porta al tema di Israele e, più in generale, allo sconquasso mediorientale. Ci siamo riaffacciati in Africa seguendo un po’ la via dell’agricoltura e molto quella del petrolio, con qualche contrattempo (vedi Niger): le nostre ex colonie sono le aree di crisi più calde del Continente: una nemesi che non possiamo ignorare. Restiamo in Afghanistan, dicendo a giorni alterni che ce ne vorremmo andare. In America Latina l’attenzione è inversamente proporzionale all’importanza delle nostre comunità. Siamo stati fra i primi a riconoscere la Cina e ora arranchiamo dietro ai nostri concorrenti. In India, i marò hanno fatto velo a opportunità che rischiamo ogni giorno di perdere.
La proiezione internazionale dell’Italia è inferiore spesso al suo potenziale reale; al tempo stesso essa è destinataria di una “domanda di cultura” pressoché illimitata. La politica culturale dovrebbe essere uno strumento di soft powercapace di rafforzare un’identità per altri versi carente. E invece non si parla quasi mai di politica culturale anche come politica estera.”
Antonio Armellini (Huffington Post)
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