Nel 1946-47 prevalse un sostanziale accordo per non costituire un potere di governo dotato di autonoma legittimazione e quindi troppo stabile e troppo forte
Milano 1 Giugno – Il confronto non proprio diplomatico tra il Quirinale e la coalizione incaricata di formare il governo a proposito della nomina del professor Paolo Savona a ministro dell’Economia ha messo ancora una volta in luce i limiti e la fragilità della seconda parte della nostra Costituzione, quella che riguarda l’ordinamento della Repubblica. In particolare laddove si parla dei poteri politico-istituzionali e dei rapporti tra questi.
Limiti e fragilità che diventano sempre più evidenti mano a mano che avanziamo in una fase Jstorica distante ormai anni luce da quella in cui la Costituzione fu pensata e scritta.
Quando infatti nel 1946-47 si trattò di delineare il quadro dei poteri della Repubblica, subito prevalse — a causa del timore comune a tutti che il vincitore delle elezioni potesse abusare della propria vittoria — un sostanziale accordo per non costituire un potere di governo dotato di autonoma legittimazione e quindi troppo stabile e troppo forte. Proprio per questo è a mio giudizio alquanto improprio parlare, a proposito del nostro sistema di governo, di un insieme di «checks and balances» (freni e contrappesi). Ha un senso infatti parlare di «freni e contrappesi» quando si tratti d’impedire che un potere ecceda dall’ambito proprio, quando si tratti cioè di controllarne ed eventualmente controbilanciarne gli abusi. Ma una cosa del tutto diversa è invece il caso italiano, dove si tratta non già di «freni e contrappesi» posti a evitare gli eccessi del potere, le sue usurpazioni, bensì di un potere che viene istituito fin dall’inizio con dei limiti ristretti. Un conto insomma è un governo il cui potere non può superare certi limiti — ed è il caso, naturalmente, dei governi di tutte le democrazie costituzionali — un altro, assai differente, è quello di un governo che per sua natura è dotato di poteri notevolmente limitati, che invece è il caso della democrazia italiana. Fare del presidente del Consiglio, come fa la nostra Costituzione, sostanzialmente un primus inter pares, togliendogli perfino la possibilità di licenziare un ministro, non significa porre un freno a un suo potenziale colpevole eccesso di potere: significa solo farne un capo a metà.
Un potere di governo così concepito può esistere e funzionare più o meno efficacemente solo a certe condizioni: innanzitutto che per ragioni storiche si sia venuta formando un’atmosfera di reciproco riconoscimento e «rispetto» tra principali partiti e culture politiche e tra questi e le istituzioni, frutto di una certa omogeneità di fondo (con il relativo tacito accordo a non oltrepassare certi confini nello scontro politico). È anche necessario che si sia stabilita una sostanziale sintonia di modi d’essere, di sentire e di pensare, tra il personale e la classe politica in generale (dunque anche quella di governo) e l’establishment del Paese nel suo complesso: le forze economiche, la stampa, gli ambienti della cultura.
Ma non basta. C’è bisogno di un’ultima, decisiva condizione: vale a dire di un centro di gravità permanente, di un dominus al quale sia riconosciuto da tutti gli attori un potere regolatore generale, ancor più di fatto che di diritto. Un’autorità di ultima istanza che faccia sempre valere la natura consensualistica del sistema fondata sull’esistenza di un potere limitato del governo. C’è bisogno cioè di una figura quale quella che è venuta incarnando nel nostro ordinamento il presidente della Repubblica. Tutte le condizioni ora dette, in qualche modo presenti fin dall’inizio nella Prima Repubblica, sono venute via consolidandosi nel corso della sua storia. Ma sono rimaste sostanzialmente in vigore pure nella Repubblica successiva, quella iniziata nel 1994, la quale più che seconda si dovrebbe chiamare prima e mezza per i suoi molteplici tratti di continuità con la precedente. Esse sono invece venute meno oggi, all’indomani del 4 marzo. La maggioranza dei voti complessivamente ottenuta da forze politiche che in nessun modo si riconoscono nelle regole non scritte in vigore finora (Lega, Cinque Stelle e mettiamoci pure Fratelli d’Italia superano di un paio di punti il 5o per cento) ha creato infatti una situazione del tutto nuova.
Grillini e leghisti, infatti, non si riconoscono né vogliono riconoscersi come parte di una classe politica più ampia e tanto meno di un establishment sociale (se realmente sia così, e se anche tra sei mesi sarà così, è un altro discorso: per il momento questa è l’immagine che vogliono dare di sé). Desiderano in tutti i modi affermare il proprio carattere di rottura, la propria alterità. Proprio per questo non possono che essere contro il modello del governo «per mutuo consenso», o «a dissenso dolce» — chiamiamolo cosi — che ha dominato la scena italiana. Tanto meno riconoscersi nell’esigenza di una qualche necessaria continuità.
Viene così in primo pianola profonda difficoltà del nostro sistema politico a funzionare sulla semplice base del risultato elettorale: dunque, per esempio, accogliendo senza problemi un netto cambio nell’indirizzo di governo. Difficoltà che si fa tanto più sentire in quanto rimanda alla difficoltà che a causa dei valori assai particolari e incisivi da essa proclamati ha la nostra Costituzione a metabolizzare e integrare la successione delle classi politiche e delle loro culture quando queste si connotano (sia pure, magari, a puro titolo propagandistico) per un tratto più o meno pronunciato di rottura rispetto al passato, di messa in discussione dei valori tramandati e dei programmi consolidati, di diversità rispetto almodo d’essere, ai circuiti d’influenza o agli interessi delle élite tradizionali. Non è un caso che — sia pure in forme diverse perché diversi erano ogni volta i protagonisti e i contesti — una simile difficoltà si sia presentata al momento dell’avvento sia di Berlusconi che di Renzi come oggi del duo Salvini-Di Maio. Con l’inevitabile risultato, per le ragioni dette soma, che alla fine tutti i problemi e le tensioni si scaricano sul capo del solo presidente della Repubblica.
Ernesto Galli della Loggia (Corriere)
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