Il caso Uva: una persecuzione finita giustamente con un’assoluzione

Lombardia

Ieri, come forse avrete letto, sono stati assolti tutti gli imputati del processo Uva. Ricapitoliamo questa storia che continua da dieci anni. Il 15 Giugno 2008 il pregiudicato Giuseppe Uva, ubriaco, insieme ad un amico, altro specchiato gentiluomo, stavano spostando le barriere in piazza a Varese. Uva viene trattenuto la notte in caserma, ma la mattina, accortisi che non stava bene (e nonostante non volesse essere ricoverato) gli agenti lo caricano in ambulanza e lo fanno ricoverare coattamente. Muore in ospedale poco dopo, per le fatali conseguenze di un’aritmia di cui soffriva da tempo. Dieci anni di processi dopo, assolti già una volta in primo grado, la cosa potremmo anche chiuderla qui: non ci furono lesioni, l’arresto era legittimo e non c’era alcun obbligo di accorgersi prima di uno stato di malessere del prigioniero. Quello che qui andrebbe aperto, invece, è un ampio dibattito sul perché si sia insistito su un processo che nemmeno il primo PM che ha seguito il caso voleva iniziare (prima che fosse rimosso dal suo ruolo). E su come questo caso, insieme a quello di Cucchi, siano stati artatamente utilizzati per introdurre una legge, di cui non si sentiva alcun bisogno, che è quella sulla tortura.

Un antefatto: la tortura è una cosa bruttissima. Ampiamente coperta da una serie di reati, dal sequestro di persona all’abuso d’ufficio, dalle lesioni al tentato omicidio. Se ne è voluto fare un reato autonomo per ricomprendere anche casi come questo, in cui, in assenza di percosse, di violazioni di legge e di abuso di autorità, si sentiva l’esigenza di punire comunque gli agenti. Perché un uomo, ubriaco e fuori controllo, tolto dalla strada perché non potesse far danni ulteriori, è deceduto per problemi di salute. Ma la cosa più atroce non è questa, no. È il sospetto infamante, evidentemente creato dalle testimonianze dell’amico (il gentiluomo parricida di cui sopra), che l’intera azione sia stata orchestrata per punire Uva, colpevole di aver millantata una relazione con la moglie di un carabiniere. Questa calunnia sta perseguitando da dieci anni una famiglia ed un’istituzione, quella dei Carabinieri.

In ultimo c’è la famiglia. Che come tutte le famiglie simpatiche alla gente che piace alla gente che piace, è in cerca della verità. Verità, rigorosamente con la minuscola, che non troverà mai, anche perché due sentenze consecutive di assoluzione e, si spera, anche una di Cassazione coerente, non basteranno. Non basteranno a placare la loro sete. Che non è di verità, ovviamente, ma di vendetta. Una vendetta che lo Stato, i fatti, le sentenze ed il paese tutto si rifiutano di concedere loro. Posso capire la loro rabbia. Mi rifiuto di accettare le ricostruzioni giornalistiche continuano a riportare le calunni e danno spazio nullo alle difese.

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