Di Maio e quella insana voglia di ingabbiare gli imprenditori

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“Ci sono tante crisi aziendali nei territori dei comuni italiani”, dice Di Maio mostrando un faldone di documenti: “Sono tutte crisi aziendali che mi sono state” segnalate in questi giorni, “tra cui la vertenza Ipercoop, Mercatone Uno. C’è tanta sofferenza in tutta Italia, come la vicenda Villa dei Pini di Avellino. Tutto un malloppo raccolto solo in una giornata da persone disperate” che vivono in un “costante senso di precarietà legato anche a difficoltà aziendali che non sempre sono colpa dell’azienda. Ci sono aziende che vogliono delocalizzare e quelle vanno fermate perchè secondo me la delocalizzazione, soprattutto se come impresa hai preso fondi dallo Stato, non deve essere permessa”. Così la diretta Facebook del neo ministro riassunta da Repubblica. Ed è subito DDR. Intanto due particolari: primo, nel 2014 una norma anti delocalizzazione per le imprese che hanno preso contributi pubblici è stata già introdotta. Quindi o Giggino non lo sapeva o intende inasprirla. E temo sia la seconda. Secondo, c’è un soprattutto assai inquietante. Soprattutto se hai preso fondi. Non “solo se hai preso”. No. Soprattutto. Quindi esiste una fondata ipotesi che si stia pensando a qualcosa di più forte per impedire all’imprenditore di andarsene. Proviamo, quindi, a fare qualcosa di inaudito, di reazionario, di infinitamente controcorrente: prendiamolo sul serio. E vediamo cosa non va con questa proposta.

Iniziamo dal facile: gli incentivi sarebbe meglio non darli. Ed anzi, en passant, ricorderei a Di Maio che con la flat tax sono una delle prime cose che sparisce. Quindi, esattamente, di che parliamo? Se stai abbattendo di almeno dieci punti la tassazione per l’impresa e di svariati punti quella del reddito di impresa, tu punti ad evitare le delocalizzazioni con una concorrenza sulle condizioni economiche e di infrastruttura, che dovrebbero più che compensare gli altrui stipendi inferiori (anche considerando la maggior preparazione delle nostre maestranze), non a suon di muri. Se qui vieni tassato come in Romania, ma hai (fingiamo, non è purtroppo così in realtà) infrastrutture migliori delle loro, la gente verrà qui a produrre. O ci resterà, se è da qui che partiva. Il punto, temo, sia però un altro. Metà della maggioranza non ha capito che, in caso di approvazione della flat tax, il circo dei regali agli amici, degli interventi miracolosi in cui si salvano aziende decotte perché gli operai non vogliono restare a casa e i territori non vogliono passare oltre inevitabilmente finirà. Incomprensione assurda tra l’altro: sono proprio loro a volere il reddito di cittadinanza, che servirebbe proprio per disinnescare queste minacce.

In sostanza, Di Maio, ha di fronte un non problema: Mercatone soffre? Che chiuda. I dipendenti vadano a casa con il Reddito di Cittadinanza e altri imprenditori lo sostituiranno. Solo che queste misure entreranno in vigore, forse, tra due anni. E le comunali sono oggi. Quindi meglio spostare il discorso (Mercatone non intende certo delocalizzare), rilanciando e buttando la palla in tribuna. Solo che, nel farlo, si dimostra tutta la propria voglia di non giocare nemmeno questa partita. In sostanza: invece di puntare a rendere l’Italia un paese irresistibile con la flat tax, compensando le perdite di lavoro con il Reddito di cittadinanza, si punta a punire chi vuole aprirsi nuovi mercati. Dimostrando, se mai ve ne fosse stato bisogno, che finita la campagna idea dietro le promesse spuntano i mitra, i muri, che sembravano così utili a proteggerci, si coprono di filo spinato ed improvvisamente invece di sparare a chi entra si comincia ad abbattere chi tenta di fuggire.

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