Milano 11 Giugno – Una collezione da vedere, per la completezza di opere significative. Artribune ne illustra la preziosità e l’originalità:
“Arte come rivelazione. Dalla collezione Luigi e Peppino Agrati. Installation viewat Gallerie d’Italia, Milano 2018
Quando si dice una collezione strepitosa: sorprendente, completa, ricca di opere che colgono gli artisti all’inizio della loro poetica matura, densa di approfondimenti sugli autori prediletti.
La raccolta degli industriali Luigi e Peppino Agrati, comprendente cinquecento pezzi, è stata di recente donata a Intesa Sanpaolo. Dopo essere stata sistematizzata in un catalogo ragionato, la collezione viene ora per la prima volta esposta al pubblico con la mostra Arte come rivelazione alle Gallerie d’Italia, che propone un estratto rappresentativo di 73 opere.
RAPPORTI DIRETTI
Molti i punti forti della mostra curata da Luca Massimo Barbero. I due Twombly del 1962 e 1966, ad esempio, da soli varrebbero la visita, così come la piccola monografica di Fausto Melotti che apre il percorso. Dello scultore trentino vengono esposte 19 opere, molte racchiuse al centro del salone in una struttura che riecheggia le acrobazie formali dei lavori.
La successiva sala su Christo dà una delle molte testimonianze dei rapporti diretti tra collezionista e artista: fra i lavori esposti ci sono i progetti per il parco della famiglia Agrati. Una delle rivelazioni promesse dal titolo della mostra è poi la nascita dell’Arte Povera, colta grazie a lavori precoci come il Senza titolo del 1968 di Mario Merz. Presenti anche gli altri protagonisti del movimento (Boetti con i Vedenti, Kounelliscon una rara Rosa in tessuto, Paolini con un omaggio a Jasper Johns…), messi a confronto con un big come Schifano e un irregolare come Gnoli (straordinario il suo Bowtie del 1969).
RIVELAZIONI
Dopo un passaggio di prestigio nella sezione “Tra materia e spazio” attraverso opere di Fontana, Klein, e Burri, si giunge alle varie ricerche che inseguono un grado zero dell’espressività, tra monocromia e concettualismo. Fra Castellani, Manzoni e altri protagonisti italiani spunta un Ryman d’eccezione del 1966.
Un’altra “rivelazione” è in effetti quella relativa all’arte americana, che folgorò i collezionisti e fu da loro coltivata in parallelo a quella italiana. Il Triple Elvis del 1963 di Warhol campeggia da solo nel secondo salone delle Gallerie, collocazione che ne accentua la paradossale sacralità, come fosse l’icona di un altare laico. Tre Rauschenberg maestosi, i due Twombly già citati, due Basquiat caratterizzati da un inconsueto colorismo e infine un tourbillon di varie forme di concettualismo “caldo”, da Ruscha a Flavin, da Nauman a Richard Serra, chiudono un percorso da non perdere.”
Stefano Castelli (Artribune)
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