Milano 25 Giugno – “Per favore, mi può portare al Teatro lirico?». Il tassista si volta con uno sguardo interrogativo. E risponde come farebbe qualsiasi milanese. «Ma il Lirico è chiuso da anni…». Vero. Dal 1999 il fratello “minore” del Teatro alla Scala, che porta la firma dello stesso architetto, Giuseppe Piermarini, ed è stato inaugurato appena un anno dopo la Scala, nel 1779, ha perso qualsiasi contatto con il mondo dell’arte. E oggi è un cantiere che mostra impalcature, muri grezzi o sacchi di cemento. E dire che da questo palcoscenico a due passi dal Duomo è passata una parte della storia della musica e non solo. Qui Gaetano Donizetti ha visto debuttare nel 1832 L’elisir d’amore quando ancora il teatro era chiamato “della Cannobiana’: Oppure Francesco Cilea ha assistito nel 1902 alla prima del suo dramma crepuscolare Adriana Lecouvreur. E ancora il Lirico “santuario” dell’operetta o dei testi di Bertolt Brecht. Ma anche di Giorgio Gaber a cui adesso è dedicato.
Eppure il tassista non ha del tutto ragione. Perché dopo quasi venti anni di silenzio la musica e l’opera tornano – almeno per una sera, venerdì scorso – nella “Scala del popolo”. Fra gli scheletri d’acciaio che ancora la riempiono e che raccontano i lavori voluti dal Comune per farla risorgere. Un’apertura straordinaria con un concerto altrettanto insolito: quello del coro di sessanta melomani sui ponteggi che svettano dal proscenio al soffitto. Sulla testa i caschi di protezione; addosso le pettorine arancioni. Identico dress code per il direttore Filippo Dadone, per i venticinque maestri dell’orchestra e per i cinque giovani solisti, i soprani Renata Campanella ed Elisa Maffi, il mezzosoprano Eliana Sanna, il tenore Savino Nenna e il basso Gabriele Bolletta, anche loro sistemati sulle impalcature.
In realtà è la prova acustica del restauro. Ma trasformata in uno show di fronte a centocinquanta invitati, piccola avanguardia del pubblico che in un domani ormai dietro l’angolo abiterà di nuovo il Lirico dove Mussolini tenne il suo ultimo comizio pubblico nel dicembre 1944. Però non sono né Donizetti, né Cilea, né Salieri – le cui composizioni inaugurarono il teatro – a riconsegnarlo (o quasi) ai milanesi. Tocca a Gioachino Rossini nell’anno del 150° della morte. Con il coro degli ‘Amici del loggione del Teatro alla Scala” l’associazione che raccoglie mille fra i famosi “fischiatori” del tempio della lirica. Appassionati d’opera, temuti da cantanti, direttori e registi che attendono dalle gallerie del Piermarini il responso sullo spettacolo di turno, si sono messi in gioco. E, benché al Lirico gli spettatori siano in parte “sodali” del loggione, i «bravi» che alla fine riecheggiano nella sala sono meritati. Per la suggestione dell’esibizione, per la passione trasmessa, per il felice risultato che un coro di amatori regala. A cominciare dallo struggente Stabat Mater.
Il recital rientra nell’esperimento di “Cantiereevento”, il percorso senza precedenti in Italia lanciato dalla fondazione Gianfranco Dioguardi che restituisce alla gente un teatro ancora in ristrutturazione. Entro la fine del 2018 dovrebbero terminare i lavori affidati all’impresa Garibaldi-Fragasso: con un anno e mezzo di ritardo e un costo di quasi dieci milioni di euro. Accompagnati da un contenzioso di fronte al tribunale amministrativo sulla futura gestione. Ma tant’è… Certo, quando il Lirico riaprirà, avrà 1.500 posti e sarà più o meno come era stato lasciato: con decorazioni, mosaici e tendaggi originali. E quello stemma dorato della città, sopra il palcoscenico, tornato a risplendere da pochi giorni. Così, mentre dal coro si alza il grido «Liberté, liberté» che conclude il Guillaume Tell e chiude il concerto, non si può che far proprie le parole dell’ultima opera del genio di Pesaro: libertà dai ponteggi per il teatro di via Larga e finalmente una nuova vita.
Giacomo Gambassi (Avvenire)
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