Milano 27 Giugno – La sconfitta della sinistra ha ragioni profonde che parlano di incapacità di entrare in simbiosi con i sentimenti di un “popolo” che vuole considerazione e protezione. Proponiamo l’analisi di una sconfitta storica vista con obiettività da sinistra. L’articolo è di Alessandro De Angelis sull’Huffington Post.
Più che una semplice sconfitta elettorale, è la certificazione di uno sradicamento “storico” della sinistra dal paese. Nel suo insieme: moderata, radicale, in tutte le forme che abbiamo conosciuto in questi anni. Perché non c’è più un “popolo” sensibile a un riflesso antico e al potere evocativo di una storia, di fronte a un avversario vissuto come un pericolo. Come in fondo è sempre accaduto in tutta la storia repubblicana, con le zone rosse rimaste simbolo non solo di un buon governo, ma di una identità politica e di un compromesso sociale capace di resistere a ogni “svolta a destra” sul piano nazionale.
La rottura “sentimentale” è certificata, in questa spaventosa avanzata della destra in città simbolo del movimento operaio, tappa finale di una marcia rossa alla rovescia consumata in questi anni, con le periferie di Milano che accolsero la Lega e quelle di Torino i Cinque Stelle. Su dieci capoluoghi di provincia in Toscana il centrodestra, a trazione salviniana, ormai ne amministra sei (Arezzo, Grosseto, Massa, Pisa, Pistoia, Siena); in Umbria ne amministra due su due (Perugia e anche Terni, antica roccaforte operaia). Al Nord est la sinistra si conferma al governo solo in una città su sei (Piove di Sacco), nel Nord Ovest solo in sei su quindici.
Non è questione di errori a livello locale, di questo o quel candidato. È un cambiamento molto più profondo che mette in discussione l’esistenza stessa della sinistra per come l’abbiamo conosciuta finora. Detta in modo brutale: la sinistra in Italia è a rischio estinzione nel suo insieme. Guardate la Toscana: non è bastata neanche la ricomposizione politica del centrosinistra, col Pd e Leu impegnati a sostenere gli stessi candidati sindaci. L’evocazione del pericolo “sovranista” e l’invocazione unitaria non è stata sufficiente a ricomporre un popolo che, in questi anni, si è già rifugiato nell’astensione o nel voto ai Cinque Stelle e – perché no – nel voto a Salvini come nei quartieri popolarti di Pisa, senza un chiarimento di fondo, una analisi e una capacità di lettura. Per la prima volta il meccanismo non è scattato: tre anni fa in Emilia Romagna ci su un astensionismo record, ma chi andò a votare comunque espresse una appartenenza alla sinistra; stavolta, la bassa partecipazione ha premiato la destra e il voto di Pisa suona già come un’eco sinistra per le prossime amministrative a Firenze o in Toscana.
È tutto qui il senso della sconfitta in un quadro di smobilitazione politica e identitaria: Salvini non è stato percepito come un pericolo, anzi, in quest’epoca di parole estreme e sentimenti radicali. Perché il “popolo” non è dato una volta per tutte: è una costruzione politica, attraverso lo sviluppo di simboli e soggettività. Salvini lo sta facendo, perché sta costruendo, innanzitutto, una idea di società, col cemento della paura e il mattone del restringimento dei diritti, offrendo la protezione a un ceto medio piegato dalla crisi e spaventato dalla perdita di antiche certezze economiche ed esistenziali: respingimenti, perché la “pacchia è finita”, espulsioni, censimento dei rom, ricerca ogni giorno di un nemico, si chiamino Ong, Tunisia, rom, Malta con le sue reni da spezzare se non accoglie i migranti, intimidazioni a Saviano.
Parole che, quando le bandiere non erano ammainate, avrebbero suscitato nelle urne una reazione indignata e una “mobilitazione”. Invece sta cambiando il colore del popolo, o è già cambiato in questi anni di “grande smobilitazione”. Qualcuno ricorda il trionfo del no a Pomigliano d’Arco, mentre l’establishment raccontava il pericolo di una regressione politica e culturale da arrestare con Renzi? Non solo la gente non si è spaventata, ma ha percepito le cosiddette forze anti-sistema come il più grande vettore di cambiamento del paese, stravolto nella sua struttura sociale e nei suoi ancoraggi e si si è affidato a quelle forze perché da quelle forze si sentiva protetto, difeso e capito.
Né l’opposizione è diventato il luogo della ricomposizione di questa scissione tra sinistra e popolo. Perché l’opposizione non è una ripicca o un battibecco di un ceto politico incapace di percepire il suo ruolo nella società. È innanzitutto comprensione di queste dinamiche, studio, lettura, costruzione di una idea di società e di democrazia. Si sarebbe domandato Gramsci, come effettivamente fece, di fronte al consolidamento di un senso comune di destra quando le masse socialiste dell’Emilia si consegnarono al fascismo: quale è il “nucleo di verità” che c’è nel pensiero di questa destra che intercetta un consenso di massa? E come lo interpreto per dare una vitalità ai miei valori.
E non si dica, come di fronte a un destino cinico e baro, che in fondo è così in tutta Europa. È vero che la crisi economica ha ovunque corroso il tessuto sociale e, con esso, le forme di rappresentanza della politica tradizionale e dei partiti che ne sono espressione. Però ovunque le forme classiche della politica convivono con le nuove. In Spagna, sorprendentemente, i socialisti hanno fatto il governo che, fino a qualche settimana fa, era nelle mani dei conservatori. Corbyn, in Inghilterra ha una sua vitalità. In Germania l’acciaccata Spd, assieme alla Linke e ai Verdi rappresenta quasi la metà dell’elettorato. E in Francia il sistema istituzionale consente sempre all’establishment di stare al governo isolando la Le Pen. Solo da noi la sinistra è pressoché scomparsa, perché il popolo lo ha lasciato prima di lasciare il governo, e attraverso l’azione di governo e la sua concezione del potere. E ora le sue cittadelle accolgono il “nemico” senza neanche resistere tanto.
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