Un solo incontro tra Manzoni e Verdi, ma un incontro di due grandi anime. Proponiamo il ricordo storico di Angelo Foletto pubblicato da Repubblica
”Quando, fino al 1998, nella sala delle partenze della stazione Centrale c’era il Museo delle Cere, Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi erano riprodotti nello stesso ambiente-loculo. Con uno squarcio scenografico sullo sfondo, circondati dagli acquerelli e dalle sculture di Aldo Falchi. pagina VI II racconto do Verdi arvoj i S. Quando, fmo al 1998 ma pare sia passato un secolo, nella sala delle partenze della stazione Centrale c’era il Museo delle Cere, Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi erano riprodotti nello stesso ambiente-loculo. Con uno squarcio scenografico sullo sfondo, circondati dagli acquerelli e dalle sculture di Aldo Falchi (Rigoletto e alcuni personaggi dei Promessi sposi), i due “eroi” intellettuali più riconoscibili e indiscussi dell’Ottocento italiano erano in conversazione per l’eternità. Quella conversazione che almeno Verdi avrebbe voluto fosse più frequente in vita, ebbe invece una sola data, il 30 giugno 1868. L’entrata del compositore nell’ingresso del palazzo di via Morone è ricordata a Casa Manzoni centocinquant’anni dopo, alle 18, da un concerto diretto da Adriano Barbieri Tornano con gli archi della Filarmonica Italiana, il Gruppo Corale Canticum ’96, alcuni solisti e il pianista Samuele Pala. Prevedibile antologia verdiana, da Nabucco ai Pezzi sacri in veste orchestrale riadattata, e una rarità: la testimonianza del progetto su Adelchi che Verdi abbozzò nel 1858, di cui restano le note del celebre coro-epicedio «Sparsa le trecce morbide». L’incontro col «l’unico santo del suo calendario», per dirla con Massimo Mila, Verdi lo attese a lungo. Ma ne usci toccato fino alla commozione: «Cosa potrei dirvi di Manzoni? Come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me alla presenza di quel Santo, come voi lo chiamate?» scrisse a Clara Maffei che aveva reso 1868, «io mi gli sarei posto in ginocchio dinnanzi, se si potessero adorare gli uomini. Dicono che non lo si deve, e ciò sebbene veneriamo sugli altari tanti che non hanno avuto il talento né le virtù di Manzoni, e che anzi sono stati fior di bricconi». La giornata storica era stata preparata con cura. Un anno prima la Maffei, che aveva ben coltivato nel «salotto» il culto laico del Manzoni, gli aveva presentato la moglie Giuseppina Strepponi. A ricordo di quel primo approccio Verdi-Manzoni, il ritratto con la dedica «A Giuseppe Verdi, gloria d’Italia, un decrepito scrittore Lombardo» che oggi troneggia nello studio del maestro a Sant’Agata. Le parole ebbero un effetto conturbante sulla «gloria d’Italia». La cronaca è nella lettera che la Strepponi scrisse alla contessa il 21 maggio 1867: «Egli diventò rosso, smorto e sudato; si cavò il cappello, lo stropicciò in modo che per poco non lo ridusse in focaccia. Più (e ciò resti fra noi) il severissimo e fierissimo orso di Busseto n’ebbe pieni gli occhi di lacrime». Mentre lo storico colloquio del 30 giugno 1868 rimase nelle parole confidenziali del maestro. Ma che fosse stato un dialogo franco e tra uomini grandi, lo dimostra il biglietto di auguri per San Giuseppe 1869 di Manzoni: «A Verdi — Alessandro Manzoni — eco insignificante della pubblica ammirazione per il gran Maestro, e fortunato conoscitor personale delle nobili e amabili qualità dell’Uomo». È l’ultima testimonianza nota dei loro rapporti personali. Manzoni mori il 22 maggio 1873. Ai funerali solenni, il 27 in Duomo, presenti autorità della nazione, dal rappresentante del Re ai principi Umberto e Amedeo di Savoia, ai presidenti del Senato e della Camera, al ministro degli Esteri, Verdi non partecipò. Ma due giorni dopo si confidò con l’amica Clara Maffei: «Con lui finisce la più pura, la più santa, la più alta delle glorie nostre! Molti giornali ho letto! Nessuno ne parla come dovrebbe. Molte parole ma non profondamente sentite. Non mancano però i morsi. Persino a Lui! Oh, la brutta razza che siamo!». Musicalmente, il culto manzoniano di Verdi era iniziato presto: «Circa 60 anni fa ho musicato qualche coro delle tragedie del Manzoni a tre voci e il Cinque Maggio a una voce che non vedranno mai la luce», confessò nel 1890. E tenendo come buona una notizia di terza mano — cronaca postuma di Boito riferita a un «si dice» della cerchia di Verdi — all’indomani di Otello l’ottantenne aveva progettato un poema sinfonico-descrittivo, con tanto di cori e campane dell’alba, ispirato alla notte dell’Innominato e una pagina sulla morte di Ermengarda. E sarebbe culminato nella composizione della Messa di Requiem, diretta da lui stesso per la prima volta in San Marco il 22 maggio 1874, anniversario della morte dello scrittore.
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