La malinconia del sole in Ingmar Bergman

Cultura e spettacolo

L’ho incontrato a 20 anni in un cinema d’essais, quasi un destino, una folgorazione. Un cinema di quadri, di tagli di luce, di penombra, di domande senza risposte. Una rivelazione nel susseguirsi di un dialogo che era ricerca di sé e analisi della vita e delle sue contraddizioni. E diventava ansia metafisica, frammenti di ricordi, incubi di immagini, in una continua sovrapposizione di pensieri evocativi e paesaggi. Un linguaggio che aveva la lentezza dell’introspezione, l’inquietudine del dubbio, la bellezza di una sintesi incisiva.

Inutile dire che il primo film che vidi fu il Settimo sigillo, un capolavoro di innovazione registica, di quadri iconici, di dialoghi essenziali, ma fortemente simbolici, dove il tempo ha la forza di un’eterna domanda sull’esistenza di Dio, sulla sua presenza nella vita dell’uomo. E conseguentemente la paura di vivere e di morire; l’approccio alla fede, al dogma e al dubbio. Ma la centralità dell’uomo e la sua capacità di autodeterminazione in quella assurda partita a scacchi con la Morte è sempre presente.

Ingmar Bergman nacque il 14 luglio 1918 e morì nella cara isola di Fårö il 30 luglio 2007.

Sono passati cento anni dalla nascita, ma i suoi film sono ancora prodigiosamente attuali, nelle tematiche, nelle invenzioni sceniche, nei dialoghi.  Meraviglia ancora oggi la capacità di fare cinema, teatro, televisione sempre con lo sguardo del genio, che assapora la sorpresa di calare il fantastico nel reale, di evocare con pudore l’infanzia, di porre domande.

La malinconia del sole sul mare apre il Settimo Sigillo

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