Per gli elettori la democrazia è la politica sociale, lavoro e tasse, Molto, molto di meno, l’ambiente, il debito
pubblico, la mafia, i diritti delle donne, quelli dei gay, le disgrazie di stranieri, in primis africani e le sorti
del’Europa. Per il mainstream è il contrario.
Quando la nascita del governo penta legato sembrava a rischio di un veto quirinalizio, Di Maio andò in Tv
ad invocare il rischio esiziale per la democrazia. Il risultato elettorale sembrava messo in dubbio dalle
istituzioni non elette direttamente dal popolo.
In questi ultimi giorni il rischio per la democrazia è invece invocato in tutti altri lidi. Lamenta il rischio
democratico l’informazione cui non bastano le solite risposte date di fronte alla stesse domande poste
incessantemente. Lamentano il rischio, le minoranze che invocano l’allarme della dittatura della
maggioranza. Lamenta il rischio, la magistratura che non tollera leggi che tolgano completamente la
possibilità di interpretare la norma al giudice. Lamenta il rischio chi invoca il rispetto di sentenze e trattati.
Anche ministri delle Finanze hanno ricordato che non ci può essere voto libero senza comprensioni degli
obblighi finanziari e creditizi.
Rifacendosi a Gobetti, qualcuno invoca il voto basato sulla ragione, civiltà e serietà contro la retorica. Altri
reclamano il ritorno dei valori resistenziali, cioè ideologici contro il neoqualunquismo gianniniano tornato
con le visioni fusion Lega-Cinque Stelle. Il paradosso è che si tratta di una fusion che si nutre proprio del
lievito della libertà individuale promosso da Gobetti. Il principio democratico è percepito a rischio per la
crisi della forma-partito tradizionale, ripetono coloro che si sono riempiti per decenni la bocca con la formula
pannelliana del fascismo partitocratico lottizzatore. Si lamenta la fine dei canali tradizionali della
partecipazione politica; il rischio orwelliano che la democrazia digitale sia in realtà autoritaria. Infine
l’impossibilità di regolare i social, di controllare didattica e informazione, di fermare lo tsunami delle fake
news, fa dire al partito degli esperti in Usa ed in Europa che la democrazia è a rischio per la ‘fine delle
competenze’.
Come in Italia, dove invece di ascoltare costituzionalisti, professori, banchieri, esperti di chiara fama le folle
hanno prestato orecchio a Grillo e Salvini. Tutti questi timori evidenziano le moltissime idee diverse sulla
democrazia. Evidenziano anche molta disonestà intellettuale: i timori sul futuro della democrazia in genere
scattano dopo le sconfitte dei corpi politici e burocratici che a fatica analizzano le ragioni dei default.
Nella storia, dopo il potere delle armi ed il potere della proprietà, quello democratico si è in soldoni
concretizzato nel voto distribuito tra le masse popolari, cioè tra coloro che maxime sono deboli e di scarsi
mezzi. E’ quest’ultimo un potere che solo raramente vota un provvedimento diretto, come si è soliti fare in
Svizzera. Abitualmente vota dei delegati sperando che questi rispettino lo spirito del voto, il che spesso non
succede. Nel mondo moderno è difficile non definire democrazia anche il regime autoritario, dirigista o
dittatoriale. I pieni poteri di Erdogan, i vent’anni di potere putiniano, la dittatura di Chavez si sono fondati
sul voto popolare. Il fascismo ed il nazismo passarono per l’approvazione di Camere elette. A sottilizzare
solo Franco ePinochet da golpisti non ebbero questo vaglio; Stalin invece l’ebbe sia pure in un regime che
legittimava l’omicidio di massa per una serie di razze nemiche e per i contadini proprietari. E spesso chi è
eletto tradisce l’elettorato: Hitler fece quello che promise agli elettori che lo votarono; Roosevelt si fece
eleggere promettendo agli elettori un isolazionismo che intendeva negare alla prima occasione.
Ovvio che la democrazia è tanto più forte, quanto il Paese è forte, cioè indipendente. Malgrado gli allarmi
per il sovranismo, in realtà il voto degli elettori e quindi la possibilità di scelta dei delegati, conta meno se un
paese è occupato militarmente, deve partecipare a politiche militari altrui, è soggetto a regole economiche
assunte da altri Stati o mercati stranieri,o a sentenze di Tribunali stranieri. E se il Paese non ha un
considerevole peso economico\militare, in epoca di globalizzazione, cioè di volatilità dei capitali mondiali in tutto il mondo e di controllo militare di pochi worldwide, è ancora peggio. Hai voglia che il voto indichi
percorsi contrari alle forze dominanti mondiali militari ed economiche; in genere le stesse classi dirigenti si
devono piegare prima di conseguenze più brutali.
Il potere democratico, cioè del voto delle masse, tanto più debole dei poteri militari ed economici, tocca il
suo acme nella questione sociale, e non per abolire ricchi e ricchezza, ma per mitigare le diversità di reddito.
Come è noto, in Italia ed in genere nel mondo negli ultimi decenni, la forbice tra ricchi e poveri si è allargata
a dismisura ed il ceto medio ne ha sofferto e ne soffre. Questo è l’unico vulnus che il corpo elettorale sente
tanto più che non riesce a risolverlo malgrado le diverse scelte intraprese, con Prodi, Berlusconi, Renzi ed
ora i penta stellati.
Per il corpo elettorale, tutti gli altri temi, diversi dal sociale, lavoro e tasse, interessano molto di meno, ma
molto, molto di meno, come ad esempio l’ambiente, il debito pubblico, la mafia, i diritti delle donne, quelli
dei gay, le disgrazie di stranieri, in primis africani e le sorti del’Europa. E più l’informazione, le minoranze, i
professori, gli esperti, i giudici, i competenti li mettono al primo posto, più gli elettori si irritano, generando
in molti le paure di lesa democrazia.
La democrazia però non si identifica con il mainstream militareconomico mondiale. Se qualcuno evidenzia
che la globalizzazione e l’apertura dei mercati, oppure l’impostazione dei Trattati o della giurisprudenza
condannano al depauperamento sociale, c’è poco da urlare alla lesa democrazia, oppure alla fake news. Se le
decisioni militari straniere tolgono spazio alle nostre imprese ed aumentano i costi per l’immigrazione di
massa, se le decisioni finanziarie degli investimenti mondiali ci danneggiano, se l’Italia finanzia la Ue più di
quanto riceva, il voto popolare non può rimanere neutrale. A meno di dimostrargli che peacekeeping, Ide,
UE ci sono concretamente favorevoli; oppure a meno di dirgli francamente che le condizioni reali del Paese
non permettono di regolare neanche in parte peacekeeping, Ide, UE. In questo secondo caso il rischio sarebbe
esiziale, poiché varrebbe a sostenere che il voto è inutile.
Non si pretenda quindi che il voto popolare, la democrazia, rinunci a riequilibrare il potere militare
(straniero), ed il potere finanziario (interno ed estero). I quali, assieme ai corpi burocratici che hanno lavorato
a lungo per distruggere partiti e partecipazione non potevano che favorire il neoqualunquismo, per il quale
non è democratica la libertà di investire capitali dove si vuole se si aumenta la disoccupazione; non è
democratica la firma di un trattato le cui conseguenze vengono pagate dalle periferie urbane. Un’idea della
democrazia affatto peregrina.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.