Cosa resta d’italiano, nella Fca del dopo Marchionne? La domanda circola negli ambienti politici ed economici, in un vorticoso giro di preoccupazioni e inquietudini, accanto alla considerazione che i nuovi vertici sono tutti d’impronta anglosassone. Le domande sono sempre legittime, nel discorso pubblico. Ma probabilmente vale più la pena fermarsi su alcune considerazioni di fatti e numeri. A cominciare da un elemento cardine: la Fiat all’arrivo di Sergio Marchionne, 14 anni fa, era carica di debiti e valeva, in Borsa, appena 4 miliardi. Oggi non ha più debiti e vale 62 miliardi. All’epoca, era “tecnicamente fallita” (espressione di Marchionne) e pronta a essere acquisita da General Motors, che l’avrebbe fatta a pezzi, tenendone i pochi asset convenienti e alcuni mercati e comunque inglobandola nel giro degli affari americani. Oggi, Fca è uno dei grandi protagonisti dell’industria internazionale dell’auto. Le sedi sono in Olanda e in Gran Bretagna, il cuore batte a Detroit, dicono i critici. È vero. Ma Torino continua ad avere peso e ruolo e il gruppo ha comunque in Italia fabbriche (anche nel Mezzogiorno), laboratori, centri di ricerca, con 80mila dipendenti. 80mila dipendenti italiani d’un colosso che, nel mondo, è avvertito come un campione dello stile e della tecnologia italiana. I successi internazionali di Ferrari e Maserati, delle nuove Alfa Romeo e della Cinquecento ne sono testimonianza. Si possono discutere e criticare molti aspetti, della gestione Marchionne. Ma senza perdere di vista il fatto essenziale: non avremmo più da anni la Fiat, se Marchionne non avesse profondamente innovato e radicalmente trasformato l’azienda.
“Marchionne ha salvato la Fiat nell’unico modo possibile e cioè internazionalizzandola”, sostiene Carlo Calenda che, carriera politica e ministeriale a parte, d’industria capisce parecchio. E che a Marchionne vada sincera riconoscenza, per aver salvato il possibile della manifattura automotive, cardine di tanti altri settori industriali, lo sostiene pure un sindacalista serio e competente come Marco Bentivogli, Cisl.
Questo è il passato, sino a ieri. Sul futuro di Fca, ci sono dubbi, incertezze, preoccupazioni. I mercati finanziari ne sono sensibile riflesso. Ma proprio per ragionare seriamente d’economia e industria e per tutelare interessi e prospettive dell’industria italiana, servono competenza, solida cultura economica, conoscenza della storia, attenzione per dati e fatti, senso di responsabilità. Tutte caratteristiche di cui una classe dirigente e di governo dovrebbe essere robustamente dotata.
C’è un’altra questione, da chiarire. Che vuol dire, per un’impresa, essere “italiana”? Sono italiane Lamborghini e Ducati, che qui hanno stabilimenti e centri di ricerca, anche se l’azionista Audi è tedesco? È italiana Luxottica, che in Cadore ha fabbriche esemplari e a Milano il cuore direzionale, anche se l’azionariato pende verso Parigi? La risposta è, a mio parere, sì. Com’è italiana la Ferrero, anche se il vertice della famiglia proprietaria sta in Lussemburgo, ma gli stabilimenti italiani, da Alba al Mezzogiorno, sono cardine d’innovazione e produttività per gli altri impianti internazionali. Ed è italiana la Pirelli, con l’head quartier a Milano, una governance italiana, la quotazione in Borsa in Piazza Affari e lo stabilimento più innovativo e hi tech a Settimo Torinese (la “fabbrica bella”, e sostenibile progettata da Renzo Piano), anche se l’azionariato di maggioranza è internazionale. Le imprese devono crescere. E possono farlo solo su mercati internazionali aperti, come dimostrano tante altre storie, da Barilla a Lavazza, alle “multinazionali tascabili” della meccatronica, della chimica e della farmaceutica).
Quello sull’italianità delle imprese, insomma, è discorso complesso, non banalizzabile in facili slogan da propaganda né riducibile a scelte di protezionismo e a schemi ideologici come se fossimo ancora nei confini angusti del Novecento. Ed è un discorso interessante, utile da fare, con competenza e intelligenza da buona politica industriale (tutto il contrario di ciò cui purtroppo stiamo assistendo sul caso Ilva). Chiedendosi per esempio cosa si può mettere in campo per attrarre proprio qui in Italia investimenti internazionali e per fare crescere meglio le nostre imprese, creando le condizioni (fisco, burocrazia, giustizia, mercati efficienti e trasparenti, compreso quello del lavoro) perché “made in Italy” non sia uno slogan di propaganda ma una politica di sviluppo.
Antonio Calabrò
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