Era il ’68. Un periodo che ha rappresentato con sfumature diverse, con esperienze personali, con curiosità culturali dei singoli, una volontà collettiva di libertà. Esaltante, a volte rabbiosa, sempre convinta, nel desiderio di rompere gli schemi, di prefigurare una società nuova, senza l’ipocrisia della convenienza. Ed era una ubriacatura sana che veniva da lontano, da mille stimoli di rinnovamento, di presa di coscienza, di diritti da esigere. Non ero in Cattolica quel giorno di novembre 1967, ma il giorno dopo la sensazione che fosse successo qualcosa di epocale, era nei discorsi concitati, nel fremito del linguaggio, nella speranza che tutto sarebbe cambiato: la società, la politica, i diritti degli emarginati, i diritti delle donne. Era successo che davanti all’Università Cattolica in un’assemblea di studenti si discutesse e si protestasse per la tipologia dei corsi di studio e per la selettività, ritenuta classista, ma anche per gli orrori della guerra in Vietnam, le disuguaglianze sociali. E lì inizia il sogno di cambiare il mondo, di abbattere gli steccati ideologici e culturali, di riformare la Chiesa.
Eravamo pronti, inconsciamente preparati ad una rivoluzione libertaria, per quelle lunghe letture meditate e discusse che offrivano orizzonti nuovi, una vita destrutturata, nel segno dell’uguaglianza. Nel ’66 avevamo ascoltato un Kerouac ubriaco intervistato dalla Pivano che cantava la bellezza di quell’Andiamo. Sì, ma dove? Non lo so, ma dobbiamo andare”, e avevamo letto ‘On the road’, conoscevamo il senso del viaggio, della ricerca, del senso dell’esistenza e della religione. Con quella prosa sincopata, la punteggiatura essenziale e la fluidità di una melodia. Era la scoperta di una spontaneità di vita senza limiti, era la Beat Generation che ti entrava sottopelle, quasi una febbre. E Bob Dylan cantava Knockin’ On Heaven’s Door contro la guerra e si chiedeva “.. quanti anni devono vivere alcune personeprima che venga accordata loro la Libertà? / e quante volte un uomo può girarsi dall’altra partee fingere di non vedere?”
Là, in una cantina di piazza Tricolore dove facevamo le prove di una pièce teatrale, avevamo scoperto il jazz e Bob Dylan e Joan Baez. C’era l’eco delle marce americane con la rivendicazione di diritti fondamentali, c’erano Armstrong, Ellington, Gillespie..ma già al Capolinea, a tarda sera, Gaslini metteva le mani sul piano e improvvisava su un tema blues. Ed era una musica senza paradigmi, quasi un’offerta di condivisione. Ibsen e “Casa di bambola” e Nora.
Una delle prime raffigurazioni della donna moderna, capace di ribellarsi alle convenzioni sociali. Ma Simone de Beauvoir in “Vite spezzate” ci insegnò che donne si diventa prendendo coscienza di sé e che è necessario integrare la donna nella società con gli stessi diritti e doveri dell’uomo e con le conquiste che ne derivano, dalla uguaglianza del salario, alla possibilità di gestire il proprio corpo, consapevole di avere un ruolo insostituibile nella società. Un femminismo di diritti ancora oggi irrisolto. Nel segno della libertà (perché quella era l’ottica delle nostre scelte), Ionesco e Beckett con il teatro dell’absurdism ruppero gli schemi tradizionali dell’opera teatrale e il relativo linguaggio. Un linguaggio surreale del non senso che affascinava, poneva domande a cui ciascuno poteva rispondere a modo suo ed era la genialità delle contraddizioni, dell’incoerenza.
Al Derby i monologhi di Andreasi, le gag di Cochi e Renato, ma soprattutto i guizzi geniali di Jannacci guardavano la società sconfitta, raccontavano le piccole cose, si arrampicavano con un linguaggio surreale fino a disegnare una ribellione contro i potenti. La pièce che mise in scena nel ’68 il Teatro universitario milanese era “Tu Tu Relax”, due atti di teatro cubista. Era una novità e anche una sfida al perbenismo ipocrita del tempo. La scena era divisa un tre blocchi rappresentativi della borghesia, del proletariato e della libertà di una donna che raccontava di fatti, di incontri, di politica, di disuguaglianze e veniva commentata dalle voci borghesi e dagli operai. Lo sviluppo dei dialoghi era giocato con le luci che illuminavano solo il blocco recitante. La Triennale era stata occupata, andavamo in scena al Teatro dell’Arte scortati dalla polizia. I lunghi monologhi della protagonista bruciavano di emancipazione, di verità. E nella memoria avevo il lungo monologo di Molly, nell’Ulisse, per quella consequenzialità che i pensieri di una confessione devono avere, senza interruzione di segni di punteggiatura: una prosa libera, spontanea, emozionale. Il mio ’68 è stato un percorso consapevole di emancipazione e di libertà.
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano