Giochiamo un po’, si fa per dire.
Nel 1844 «La Presse» riacquista i diritti delle Mémoires d’outre-tombe. In redazione sembrano tutti d’accordo con Chateaubriand: «la vita è una morte a ripetizione». Nel giugno dello stesso anno Kierkegaard pubblica Il concetto dell’angoscia, Baudelaire omaggia Sainte-Beuve cantando in versi la propria arte crudele («De la douleur pour faire une volupté vrai») e Dupré ha già scolpito Abele: il corpo del giovane è inarcato in un marmoreo orgasmo mortifero. Sempre nel ’44 nasce Friedrich Nietzsche e Schopenhauer pubblica la seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione. Nel febbraio di quell’anno Verdi compone il Preludio di Ernani: un brano che – interpretato da Mitropoulos – sembrerebbe solleticare queste e forse altre contingenze temporali.
Frattanto Wagner scrive Tannhäuser. Là il Vorspiel scontra blocchi antitetici: la grazia in cerca di redenzione e il baccanale che spasima di desiderio. E Verdi, nel Preludio alla sua nuova opera, mette in dialogo gli elementi di un binomio altrettanto romantico: patto fatale e sentimento amoroso. È un inequivocabile contrasto drammatico che, come in Wagner, parrebbe già pronto a riverberarsi con altrettanta nettezza pure in musica. Eppure la lettura di Mitropoulos – sia nell’edizione fiorentina che in quella del Met – nulla concede all’amore affermativo, quello da cantare cuore in mano per meglio scontrarsi con l’ineluttabile monito del destino. Si ascolta qui, invece, un indugiare trasognato che inietta subito nelle ampie frasi liriche il veleno di un piacere ultramondano. C’è, allora, verso il sentimento, un abbandono languoroso che è consapevole di non poter trovare soddisfazione. Certo lo suggerisce al direttore il disegno melodico verdiano fatto di aperture che presto si chiudono ripiegando su se stesse dopo aver trepidato alla luce chiaroscurata degli archi. E, quando il tema fatale riappare, lo fa senza provocare alcuna frattura di senso perché proprio là il sentimento amoroso ha cercato convergere per restare ancora a decantarsi. È una sensibilità, quella del direttore greco, che mi pare inequivocabilmente tristaniana.
Senza il teatro musicale francese Verdi, oggi, non possiamo raccontarlo, certo. Meyerbeer, appunto, ma anche Donizetti: la drammaturgia del beau geste e la grammatica delle «solite forme». Eppure, qui, quale abbraccio ad un orizzonte culturale e del sentire assai più vasto!
Entrambe le edizioni di Ernani dirette da Mitropoulos non mi hanno mai provovato alcun fastidio per quanto concerne i tagli: sono un paio quelli davvero violenti. Non è “completa” neppure l’opera diretta alla Scala da Muti; dal punto di vista direttoriale la sua migliore interpretazione del Verdi anni ’40. Là il Preludio si può riascoltare come esempio di scelta interpretativa radicalmente distante da quella del maestro greco; anche se quello italiano gli è debitore in alcuni punti nel corso della partitura. Da sempre avrei invece preferito che a salire sul palcoscenico nelle vesti del bandito castigliano, proprio sotto la guida di Mitropoulos, fosse stato Franco Corelli, per qualità del canto e per indole tormentata così adatta ai tratti del protagonista.
Francesco Gala
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