Potremmo adottare il frustro meccanismo del teatro nel teatro proposto dai responsabili dell’allestimento di questo Ernani scaligero per distinguere, pure attraverso la componente musicale, l’arte dal mestiere; o, se vogliamo, il grano dal loglio un po’ come si fa tra finzione drammatica e prosaica realtà. Certo è somma arte quella di Verdi che anima quattro protagonisti scontrati a produrre personalità straripanti laddove accensioni passionali, posture e gesti – quelli che li accomunano ai caratteri dell’originale hughiano, ma specialmente a molti fra quelli tracciati nei successivi capolavori dell’autore francese – chiedono cantanti capaci di reggere insieme alla scrittura vocale anche il magnetico carisma guadagnato dai personaggi di Ernani in quasi due secoli di storia interpretativa. Scrittura che, da un lato, preserva stilemi di matrice inequivocabilmente donizettiana e, dall’altro, li fornisce di accenti e fraseggio compiutamente verdiani; già dunque nel quinto titolo del compositore che è il primo, fra quelli degli “anni di galera”, a non essere mai uscito dal repertorio.
Ho sempre trovato tutt’altro che incomprensibile la scarsissima considerazione manifestata da Hugo nei riguardi di questo titolo verdiano e mi piace giustificarla col fatto che l’autore di Notre-Dame de Paris si sia trovato di fronte ad una sin troppo aderente modulazione del proprio sentire, rifiutandola per eccesso d’identificazione. Ma queste sono considerazioni che ci allontanerebbero troppo dalla serata scorsa.
Lo spettacolo è presto raccontato. Le maestranze un poco scalcinate che lavorano per una compagnia teatrale ottocentesca inscenano il capolavoro verdiano punteggiandolo di gag e siparietti che si vorrebbero degni d’attenzione in tutt’altro contesto e su ben altri palcoscenici. Si va allora da certi involontari omaggi al teatro dei Legnanesi, fino a tributi riconducibili al can-can e a tocchi surreali con angioletti (uno obeso) che portano ceri in mano. Il tutto stava a metà fra varietà e rivista ed è stato dunque, giustamente, riprovato e deriso pure a scena aperta. Scelte registiche queste che si spiegano, forse, col tentativo di mascherare l’horror vacui magari provando ad ammiccare (o a provocare?) un pubblico dai gusti niente affatto prossimi a quelli della provincia europea dalla quale proviene il sovrintendente. In questa componente registica, laddove il mestieraccio ben più che il mestiere è presto individuato, bisogna distinguere però, se non la grande arte, certo l’abilità nella confezione dei costumi disegnati da Pollard ed improntati ad una varietà cromatica che, con qualche eccessivo oleografismo, è di sicuro impatto specie nelle scene d’assieme e in modo particolare nella festa in maschera che prepara per contrasto la conclusione del dramma. Di effetto straniante e riuscitissimo sono allora gli abiti dorati della coppia nuziale, dopo il ributo al più celebre dipinto di Hayez nell’amplesso degli amanti (parte seconda), sosta di un gioco scenico altrimenti sempre animato e con spigliatezza nei momenti in cui si sfoderano le spade.
La sortita del tenore Meli, attento ai segni di dinamica e sufficiente nell’espressione, non è stata memorabile e ciò, più che per i gruppetti eseguiti con scarsa fluidità, in ragione di alcuni appannamenti del mezzo attorno al sol e al la, manifestatamente nella cabaletta, variata con gusto. Il cantante ha rimediato poi con un’energica entrata nel castello dei Silva dove la voce ha trovato anche la giusta proiezione in sala. Bello ed orgoglioso, poi, l’attacco di «Oro, quant’oro ogn’avido» così come sonore e ben timbrate sono arrivate le frasi alla congiura rivelando là e altrove accenti accorati capaci di enfatizzare più l’aspetto del guerriero che quello dell’uomo innamorato. È una parte, quella di Ernani, che il tenore pare abbia assai meditato rispetto alla prova sotto la bacchetta di Muti. Tanto gli accenti quanto le intenzioni di un fraseggio sempre pertinente lo avvicinano forse, con maggiore immediatezza, a Carlo VII (Giovanna d’Arco) e a certi tratti che si riconoscono nei ruoli creati da Verdi per Fraschini. Dispiacciono, però, certi suoni bianchi nel duetto con Elvira e poi nel finale laddove la voce, altrove davvero tonica, tendeva nei passi in p e pp a stimbrarsi. Sono consegnati al disco i tenori che la parte del bandito cantano dal pianissimo al forte con ugual fermezza e splendore, souplesse e aristocraticità che distinguono il nobile aragonese anche con cappa e spada. Il successo del tenore è stato comunque incontrastato.
Non altrettanto consenso ha incontrato, invece, la Perez, riprovata alle uscite e poi ancora ferocemente alla singola. Soprano lirico piuttosto corto in alto e dalla prima ottava indadeguata a render giustizia ad una parte che là tanto insiste, la cantante messicana latita assai quanto a grana ed ampiezza del suono per affrontare il canto drammatico che ha condotto prima, con prudenza anche direttoriale, attraverso una cavatina sottratta al grande respiro evocativo ed elegiaco della pagina, incapace di abbracciare legando le lunghe frasi di un brano che possiede afflato in quantità tale da guadagnare celebrità pure come parodia patriottica («Cavour, Cavour involami»). Il soprano abborraccia le agilità della cabaletta sottraendosi così alle esigenze stilistiche della pagina; poi, nel corso dell’opera, non conquista con adeguatezza lo spazio sonoro durante i concertati. Sembreranno eccessive le contestazioni di buona parte del pubblico a chi, però, non voglia con ragione considerare il luogo in cui si dava l’opera così come la possibilità di reperire altrove altre interpreti (Radvanovsky, ad esempio).
Dispensato invece da qualunque contestazione il baritono Salsi che del regale protagonista però possiede quasi nulla, rimanendo sgraziato nell’emissione, traghettando egli il morbido ed insinuante fraseggiare del re di Spagna verso una caratterizzazione perlopiù irosa ed arcigna, mancando la capacità di legare i suoni percorrendo con coerenza il disegno melodico. Una stilizzazione vocale, quella inventata da Verdi per il baritono, che gravita attorno a tre poli espressivi: l’alterigia dell’amante orgoglioso delle sue prerogative, l’ampleur regale del politico in ascesa e la sussiegosa ironia che distingue l’aristocrazia. Nei cantabili Salsi ha certo piegato il mezzo, altrove impegnato a far la voce grossa, verso dimaniche più sfumate ma ha tutt’altro che conquistato adeguato effetto nelle pagine più attese: «Vieni meco» e «Oh, de verd’anni miei». Sul ragionare all’ombra della tomba di Carlo Magno la voce insisteva, infatti, attorno al mf già dall’attacco (non sono mancate oscillazioni ed intonazione fuori fuoco), con sottrazione dell’effetto dinamico sul «vincitor de’ secoli». Sono anche queste le pagine nelle quali il baritono ricorre ad un continuo caricare espressione anziché misurarla lungo la linea del canto e ciò per difficoltà a legare con proprietà. Non iscriverei affatto Salsi, dunque, nella grande tradizione del canto baritonale italiano; quello che alle prese con la nobiltà sociale – qui addirittura il regale lignaggio – sa farsi al pari aristocratica, memorabile.
D’altro segno tanto per sobrietà dell’espressione quanto per elevatezza dei modi è stata la prestazione del basso Abdrazakov, certo compassato sin dalla sortita; ma è un contegno il suo che, se un poco lo priva dell’alterigia che caratterizza il personaggio, offre comunque un canto di gusto notevolissimo trovando egli anche gli accenti di commosso dolore durante il congedo forzato da Elvira. Solo nel finale, così come alla congiura, è mancata quell’autorevolezza del tono espressivo che richiama all’ascoltatore la fatalità della morte, tratto peculiare del personaggio che è antenato di Fiesco. Del resto, il mezzo di Abdrazakov non glielo consentirebbe mancando per natura di altisonanza.
Lo spettacolo si rappresentava, anziché in quattro, in due parti divise da intervalli. E a concertare l’opera imprimendo alla narrazione ultieriore passo serrato ha pensato Ádám Fischer. Da tempo alla Scala – Chailly escluso – non si ascoltava concertare il primo Verdi con altrettanta proprietà, adeguatezza. Si dirà forse, e non senza ragione, che l’affresco a chiusura dell’atto in Aquisgrana mancava di grandiosità e si riconoscerà qua e là pure una certa uniformità di scelte agogiche. Ma, essendo queste ultime al servizio d’interpreti chiamati a sostenere parti di massimo impegno è parso che la soluzione fosse sempre quella giusta, tanto più che il colore del suono era brunito quanto serve ad evocare le tonalità del Siglo de Oro che incomincia, offrendo il direttore ungherese volumi al canto dove servivano per rafforzarlo e stemperandoli dove era altrettanto opportuno. La grande arte di condurre questa partitura alla conquista d’inediti spunti interpretativi risiede certo altrove, ma quella di Fischer rimane alta professionalità che è bene preservare con cura.
Francesco Gala
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