Pippi Calzelunghe è una smorfiosa bambina dalle treccine rosse protagonista dell’omonimo romanzo concepito dalla mente della scrittrice svedese Astrid Lindgren. Era il 1941 e Astrid Lindgren sedeva ogni sera sul letto della sua piccola Karin, che si era ammalata di polmonite, per raccontarle una storia. Una sera Karin le chiese la storia di Pippi Calzelunghe, un nome che si era inventata al momento: vista la stranezza del nome, la Lindgren decise che anche la storia dovesse essere fuori dal comune. A Karin piacque così tanto la prima storia di Pippi che ne chiese sempre altre; così, negli anni seguenti, Pippi divenne il principale personaggio dei racconti di casa Lindgren. Nel 1944 Astrid Lindgren si slogò una caviglia e fu costretta a letto; in quei giorni stenografò le storie di Pippi e scoprì che scrivere era divertente quanto leggere o raccontare storie ai suoi bambini. Successivamente trascrisse Pippi in un manoscritto, da lei anche illustrato, che regalò alla figlia per il suo decimo compleanno.
Il nome completo della protagonista è “Pippilotta batti l’occhio Viktualia Rullgardina Succiamenta Efraisilla Calzelunghe” ed è una bambina eccezionale: piomba all’improvviso nella tranquilla cittadina svedese di Visby nell’isola di Gotland e va a vivere da sola a “Villa Villacolle” (Villa Villekulla). In realtà, a far compagnia a Pippi vi è anche Zietto, un cavallo bianco a pallini neri di razza Knabstrup, e di una scimmietta, che chiama Signor Nilsson.
La vivace villa colorata di verde, giallo e rosa pastello, attira l’attenzione della cittadina; in particolare quella di due bambini, i fratelli Tommy ed Annika di dieci anni, che incuriositi accedono di soppiatto al suo interno e trovano una bambina loro coetanea, che si sta riposando con la testa ai piedi del letto e i piedi, sui quali campeggiano delle buffissime scarpe di 5 misure più grandi del piede stesso, sul cuscino. I bambini fanno amicizia con la piccola e buffa inquilina della villa e scoprono che possiede una grossa borsa con monete antiche di inestimabile valore frutto, a suo dire, dei tesori misteriosi trovati dal padre, pirata nei mari del Sud. Pippi non va a scuola ed è dotata di una forza sovrumana che dimostra alzando di peso il suo cavallo e facendo lo stesso con l’auto dei due malcapitati poliziotti, che vorrebbero farla sloggiare dalla villa in seguito alla soffiata di una poco simpatica vicina, zia Prysselius. Gli unici ragazzini che fanno amicizia con lei sono Tommy e Annika, che condividono con lei molte avventure, compresa una spedizione nei mari del Sud per liberare il padre di Pippi, il capitano di mare Efraim Calzelunghe, tenuto prigioniero dai pirati sull’isola immaginaria di Taka Tuka.
Pubblicata nel 1945, la storia della “bambina terribile” ebbe un grande successo, reso ancora più popolare dalla serie prodotta per la tv negli anni Settanta e diretta dall’autrice stessa. La protagonista fu impersonata dall’attrice svedese Inger Nilsson.
Che Pippi Calzelunghe sia un personaggio inventato, non vi è alcun dubbio, ma in quanto al suo cavallo a pallini neri, esiste veramente una tale specie equina oppure è anch’esso frutto della mente di Astrid?
Oggigiorno non si vedono cavalli col manto a palline, ma che dire nel passato? Un fatto degno di nota è la testimonianza delle rappresentazione risalenti a 25.000 anni fa. Sparse un po’ per tutta l’Europa, si trovano pitture murali che rappresentano rinoceronti, tori, bisonti, mammut, cavalli e gatti selvatici. Si tratta di fregi di altissimo valore artistico ottenuti con impasti di terre, grasso e sangue animale che ricoprono, per metri e metri, pareti di grotte e caverne, antri oscuri in cui ignote mani paleolitiche hanno tracciato profili di animali o lasciato le proprie impronte, consegnando tutto alla posterità.
Le pitture sono collocate per lo più nelle profondità di spelonche o in cave inaccessibili. Questo ha sempre fatto pensare che fossero il risultato di un rituale di magia utile a propiziare la caccia. Dovevano cioè garantire all’uomo il successo delle sue imprese. Teoria che tuttavia non spiega la presenza di alcune specie il cui valore era più che altro simbolico e l’assenza delle bestie che erano, in realtà, le prede preferite dai cacciatori del tempo quali, ad esempio, le renne: per questo motivo c’è chi ha ipotizzato che quelle forme d’arte fossero la testimonianza di un primitivo rapporto con la divinità rappresentata sotto forma di animale.
Ciò che collega Pippicalzelunge a tali pitture preistoriche è che nella regione francese chiamata Midi-Pirenei, le pareti di ‘Le Grotte du Pech Merle’ sono decorate con le immagini di singolari cavalli a pois che si è sempre creduto fossero il frutto della fantasia di un artista dell’epoca. Una recente scoperta pubblicata dalla rivista PNAS dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti ha invece chiarito, dopo aver analizzato il materiale genetico di 31 equini fossili provenienti da varie zone della Siberia, dell’Europa Orientale ed Occidentale e della penisola Iberica, che si trattava di una raffigurazione realistica.
I ricercatori, guidati dai genetisti Arne Ludwig del “Leibniz institute for zoo and wildlife research” di Berlino e Michael Hofreiter dell’università di York nel Regno Unito hanno analizzato i Dna dei 31 esemplari di cavalli preistorici: diciotto di questi erano marroni e 7 neri, di cui 6 avevano una variante genetica chiamata LP, che corrisponde al cavallo maculato arrivato ai giorni nostri. Dei dieci cavalli dell’Europa occidentale la cui datazione è risalente a circa 14.000 anni fa, ben 4 avevano il marker genetico LP. Il cavallo a pois non sarebbe stata una specie così rara all’epoca a cui risalgono i dipinti nelle grotte.
Sul perché questa specie sia diventata rara dopo che fino a 14.000 anni fa era tanto diffusa bisogna ancora da fare chiarezza: i ricercatori fanno notare che oggi alcuni cavalli con due copie del gene LP soffrono di cecità notturna, patologia che per i loro antenati preistorici sarebbe stata letale trasformandoli in vittime facili per i predatori.
Se finora dunque si credeva che quella colorazione fosse una trovata artistica, ora sappiamo che i cavalli ‘a pois’ dipinti sulle pareti delle caverne nel Paleolitico erano realistici. Lo studio è’ il primo a dimostrare che le pitture rupestri dei cavalli sono più realistiche e meno simboliche o fantastiche di quanto si credesse.
Michela Pugliese
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