A Roma si è votato per privatizzare il trasporto pubblico. Forse. Le domande di un referendum consultivo cittadino non lo suggeriscono proponendo gare e sviluppo alternative in accompagnamento. A scanso di equivoci, è nato subito d’istinto il comitato Mejodeno. Il quesito non indicava la privatizzazione ma la liberalizzazione, con il Comune a fare da garante, cosa che fa già indirettamente. Con il 16% dei votanti, è stata raggiunta appena la metà dell’alto quorum di votanti richiesto, circa 700mila, secondo il vecchio conio legislativo. Solo dal prossimo referendum il quorum non ci sarà: i 5stelle con una mano hanno dato e con l’altra tolto. La cosa aveva poco senso. Ripristinando l’anima antica, il referendum è stato proposto dalle poche decine di radicali presenti in città a cui non mancano mai i soldi ed il tempo per fare i loro scherzi da preti da sempre impegnati contro ciò che sta più a cuore ai romani, il posto pubblico ed un posto di lavoro, nell’ordine. Se l’energia scatenata nel crowdfunding politico, l’avessero messa nell’imprenditoria, a Roma ci sarebbero più imprese, ora che piano piano se ne vanno e disinvestono. Il referendum valeva così tanto che il contratto Atac è stato prorogato fino al 3 dicembre 2021 e quello Tpl al 2020.
L’investimento nei trasporti nel casino di Roma è sicuramente redditizio. Da sempre le strade, un tempo gloria degli antichi romani, sono croce e delizia di una città cresciuta senza senso a colpi di sanatorie d’abusivismo, tanto che il primo piano regolatore è del 2008, veltroniano, secondo la massima – si legalizza quel c’è. Secondo la legge Madia entro il 2019 i comuni italiani sono obbligati a vendere in tutto o in parte alcune società controllate oppure di mettere a gara gli appalti relativi. A settembre il servizio di trasporto pubblico gestito dall’Atac su affidamento comunale deve essere messo a gara. Nel 2019 anche le ferrovie urbane (Roma-Lido, Roma-Giardinetti e Roma-Viterbo) andranno a gara. Il referendum non fa che anticipare, forse soffocare un dibattito annunciato. Non è una questione di efficienza o miglioria del servizio, quanto di riduzione dei trasferimenti ai Comuni in attesa di una loro responsabilità fiscale.
A Roma c’è di tutto. Anche il 20% del trasporto pubblico affidato ai privati che da quasi 10 anni gestiscono 103 linee su gomma della periferia, 28 milioni Km con 472 autobus tutti propri, per un appalto annuo di 101,64 Milioni di euro, 3,63 euro circa a Km. L’Atac, invece, in affidamento diretto, gestisce con teorici 2.131 mezzi di superficie e 96 metro una rete di 6.446 fermate superficiali e 75 metrostazioni di 1.844 km per percorrere 153 milioni km di gomma, elettrico, rotaie e metro per 560 milioni.
L’autobus privato venne inaugurato eccezionalmente in occasione del Giubileo rutelliano del 2000. Allora TevereTPL, poi RomaTPL, un consorzio formato da soggetti diversi (Umbria Mobilità, COTRI Consorzio di Trasporto Pubblico Locale di Marco Cialone e VT Marozzi del Gruppo Vinella) 30 milioni di capitale, si aggiudicò la gara per 750 milioni e 9 anni e subito subappaltò alcune linee ad altri, soprattutto al Cotri. Tra il 2000 ed il 2006 la TPL è riuscita a farsi aumentare il compenso del 41%, arrivando agli importi odierni, mentre si riduceva del 34% il contratto Atac.Riduzioni dovute ai km effettivamente effettuati; quando l’anno scorso l’Atac ha effettuato 24 milioni in meno di km (15 su gomma), ha perso 66 milioni. TPL con numerosi contenziosi vinti con il Comune intanto arrivava al miliardo, 250 milioni in più di quanto previsto all’inizio. Le singole ditte subappaltatrici gestiscono depositi ed evidentemente il personale che quindi ha uno dieci cento datori di lavoro con buste paga e regole differenti. Ne era patron Antonio Pompili, della Autolinee Sap srl, coinvolto nell’indagine sull’appalto scuolabus di Guidonia per una richiesta di mazzetta per 100mila euro da consegnarsi direttamente presso la Guardia di Finanza. Poi ad aprile 2017 la Marozzi ha venduto la sua quota al Consorzio Trasporti Italiani, che è divenuto azionista di maggioranza. Il problema principale negli anni è stato che ad ogni ritardo nei pagamenti dell’amministrazione, non sono stati pagati regolarmente gli stipendi, con conseguenti scioperi. Il Comune non paga, bloccato dalle regole di legalità, poiché diverse aziende consorziate TPL non superano il DURC, il documento unico di regolarità; poi invece di cambiare appaltatore il Campidoglio aggiusta le procedure in attesa di un nuovo stop procedurale e legale. Quando il Comune di Roma paga direttamente, ci si mette l’Agenzia delle Entrate con i controlli a bloccare ancora le cose. Così in un anno 4 volte ora 1800 ora 500 lavoratori sono rimasti senza stipendio e senza soldi al punto da non potersi recare al lavoro; vengono dalla provincia, assunti a intermittenza, interinale e via di questo passo. L’assessora Meleo esasperata ha parlato di Comportamento intollerabile dell’azienda. Abbiamo inoltre inviato all’azienda una richiesta per avere l’elenco dei nominativi, le buste paga e gli Iban dei dipendenti, ma ancora non ci sono stati forniti i dettagli in merito, nonostante i nostri ripetuti solleciti. La reazione è arrivata ad una settimana di scioperi che ha colpito la periferia. Un danno tra i tanti per gente che è abituata a tutto. Non per TPL che non subisce la tagliola dei km non percorsi. Malgrado tutto, quando il contratto di servizio con Roma TPL è scaduto a maggio di quest’anno, gli è stato confermato prima ancora fino al 30 settembre 2018 in attesa di una nuova gara, poi al 2020 con l’aggiunta di ulteriori 15 Km.
In realtà ai difettucci dei privati non bada nessuno, anche perché lavorano nelle periferie. Con due milioni di perdita al giorno, il problema non è il servizio Atac, l’Azienda per i Trasporti Autoferrotranviari del Comune fondata dal sindaco Nathan (dal ’44, prima dal 1909 Aatm, Atm, Atg e Atag) ma il suo debito. Atac negli ultimi 9 anni è costata ai cittadini romani 700 milioni l’anno tra perdite e sussidi.
Da settembre 2017 Atac è in concordato preventivo, ciò vuol dire che ha congelato il suo debito di 1,3 miliardi di euro, in attesa di un accordo che dovrà essere sottoscritto con i creditori.
Una similAlitalia concentrata su una sola città, la più grande azienda di trasporto d’Europa con i suoi 11mila dipendenti che costano 550 milioni di euro. Con il più alto debito, 1,5 miliardi e con anni di bilanci con medie di rosso negli ultimi 4 anni di 746 milioni e di contributi pubblici per 3 miliardi. Avrebbe dovuto fallire, sull’esempio della municipalizzata di Livorno. Invece è stata ammessa al concordato preventivo dal Tribunale fallimentare di Roma con la spalmatura dei debiti fino al 2044. Incredibilmente, la sindaca ha festeggiato l’attivo Atac di 59 milioni dovuto essenzialmente al conseguente blocco del pagamento dei debiti.
Le colpe sono aziendali, comunali ma anche come dire del fato. La sinergia della maxi-fusione tra Met.Ro S.p.A. e Trambus S.p.A. voluta nel 2010 (completata dalla fusioe di OGR e Roma Patrimonio nel 2014) non ha funzionato perché sono rimasti tutti i doppioni delle funzioni. Il prezzo dei biglietti è affidato alla Regione Lazio, il trasporto all’agenzia Roma Servizi per la Mobilità, solita giunga burocratica. I mezzi reali a disposizione sono 1.230, il 63% del parco teorico che portano al 45% delle corse perse. I dipendenti, con una media di 46mila euro cadauno, costano più di quelli dei trasporti di Parigi per oltre 4mila euro e non operano sui mezzi per il 15,6% dei dipendenti, con ruoli amministrativi. Il costo globale si scarica sul chilometro percorso, per 7,3 euro: il trasporto locale sempre a Roma invece riesce a contenere questo costo a 4,5 euro anche perché ben il 98% dei dipendenti è operativo. Roma Tpl ci riesce anche perché subappalta a terzi a prezzi ancora più bassi fino al 2,63 euro a vettura-chilometro le corse diurne ed a 2,75 le notturne, sul livello delle gare dei trasporti di Londra. Ecco su cosa verteva lo spirito del referendum: su strade dissestate, su una urbanistica improbabile, su investimenti impossibili, i 4 milioni di utilizzatori del servizio pubblico possono sperare solo sul maggiore sfruttamento del lavoro, che in Tpl costa il 24% in meno rispetto all’Atac. Alle stesse medie il costo del lavoro del trasporto pubblico capitolino calerebbe ai 400 milioni annui. Le perdite da due milioni al giorno scenderebbero al milione e mezzo. Ovviamente a appalti a catena che molti vorrebbero abolire. Se non è zuppa è pan bagnato.
Per questa ragione, tutte le parti politiche praticamente erano contro il referendum o per il No: sinistra, destra, base Pd, 5stelle, lega. Si sono schierati a favore, a parte i radicali, il vertice Pd e Forza Italia, due entità nella capitale in caduta libera al 10% e 5%. I 387mila votanti sul totale di 2.363.989 si sono pronunciati a favore dei due quesiti per il 74%. Nella periferia di Tor Bella Monaca l’affluenza è stata del 9%, a Parioli emblematicamente il 20%. Per proseguire il trambusto i radicali hanno annunciato esposti al TAR che purtroppo darà loro corda.
La soluzione al trasporto pubblico di Roma è paradossale ma unica; bisogna eliminarlo. Restituire ad ogni romano i suoi 300 euro annui, quadruplicarli per chi opera con impegni di manualità e presenza fisica; rendere virtuale, fattibile in remoto, ogni altro lavoro e poi dare a tutti la possibilità di trasportare chiunque.
Almeno fintanto non sia stato riorganizzato e governato tutto il territorio abnorme capitolino.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.