C’è tutta una mitologia sulla nascita del neorealismo, come genere cinematografico. Cinecittà lasciata a sé stante durante la Guerra, i bombardamenti, poi Roma non più capitale, ma città aperta. Furbizie e miserie di trafugamento di pizze di pellicola e di strumenti da utilizzare, eroismi di ebrei nascosti nelle troupe mescolati di gente scritturata a casaccio e di professionisti, ex starlette da telefoni bianchi ed ex aviatori dell’impero. I film improbabili come scusanti per non andare nella Venezia repubblichina, dove italiani e tedeschi continuavano ad alternarsi il premio.
Il neorealismo proseguì sotto l’idea ideologica e caritatevole di un popolo preso dalle ristrettezze, nella necessità di ricostruire espiando da un passato doloroso e furono baracche, biciclette, giacchette, rivisitazioni di guerra, anch’essa come privazioni, scarpe bucate, fame. La comicità che nei primi decenni fu monopolio meridionale mescolava la povertà atavica del mezzogiorno con quella interpretativa del neorealismo. Nel mondo tutto rasoterra pochi simboli e soggetti lasciavano intravedere un’altra vita, il cappotto con collo di pelliccia del cummenda, la signora in ispezione di modelle ed abiti dalla modista.
La cosa proseguì oltre al limite consentito perché, abbandonata la sophisticated commedy, il neorealismo, inizialmente toccato dai sussulti della tragedia, ben si trovava nella commedia, ora lettura sociologica svicolante nel grottesco, ora critica inutile di un mondo fatalisticamente abbandonato ai propri difetti. Il genere era nel mondo nuovo, perché nessuno era così innamorato dei propri panni sporchi, né tanto sembrava godere del farne esibizione. Consegnava al nostro cinema una nicchia dedicata, praticamente un monopolio. La lingua però era sempre precisa, inappuntabile, scandita come ai tempi dei telefoni bianchi. Commesso, operaio, militare, aristocratica parlavano tutti lo stesso italiano cinguettante, cui poteva sottrarsi solo il caratterista dialettale o gergale.
Negli anni ’60, piano Marshall incassato e boom economico annesso, era dura rappresentare ancora il Paese come una borgata infinita di morti di fame. Venne in aiuto l’assunto di Pasolini che clochard, papponi e primi borgatari romani fossero il nuovo proletariato con cui combattere il consumismo. Il neorealismo si spostò tra baracche esistenti o di là da venire, tra borgatari ai margini sociali che venivano ad occupare una inaspettata centralità. Cambiava anche la lingua che di norma si faceva gergale, a tratti anche volgare, con pochi interventi di lingua italiana. Acme dello stile Accattone fu la pellicola di quindici anni dopo, Brutti, sporchi e cattivi che innalzava o meglio sprofondava il malessere economico, ormai esistenziale dei suoi accattoni, in abissi di cadute morali e umane. Segno che giudicava ideologicamente tutta la società. Il neorealismo non mollava allora neanche se si trattava di giudicare settarismo massonico e terrorista, meno tremendo nella lettura filmica del tenore squallido di vita e d’anima. La lingua ormai era dialetto, cadenza, gergo e l’italiano finiva in bocca solo e proprio ai malvagi responsabili dello strazio delle cose.
Il nostri cineautori avevano anche altre idee, talvolta di successo mondiale: l’horror, lo spaghetti western, l’inchiesta, la tragedia intellettuale, l’incomunicabilità. Duravano poco legate alla vita di alcuni autori o alle ondate politiche. Il neorealismo si teneva stretto come un sequestrato il pubblico, il popolo interpretato nella sua normalità come neorealista ad oltranza e lo metteva in competizione ed a paragone dei risultati della modernità liberal, sia che provasse ad immergersi nelle vacanze intelligenti, per loro natura poco neorealiste, sia che invadesse il gotha della tragedia della rappresentazione della Shoa, buttata in burletta.
Gli anni del nuovo successo economico avrebbero potuto indurre ad abbandonare il genere. Invece gli ex sfollati, ex poveracci, ex accattoni, tornavano alla ribalta da arricchiti, con evidenti stigmate del neorealismo; il punto di partenza era ormai quello più basso dei Brutti e non poteva che evolversi in un grottesco ascendere di comportamenti e linguaggi sempre più popolari, volgari, animaleschi, anche se i contesti erano natalizi e di grandi alberghi, in megapiscine dove le bolle più che da jacuzzi erano di peti. Avrebbe potuto questo genere, nato per rappresentare il disastro della guerra persa italiana ed europea (pur non vedendosene esempio simile nell’Europa occidentale), finire qui il suo percorso, trasformata vanzinamente nella comoedia plautina o ruzantiana.
E siamo all’oggi. Giovani siciliani emigranti, percorsi criminali da Romanzo dei giovani della periferia romana raccontano ancora l’infinito neorealismo italiano. Non ci crede più nessuno. Il neorealismo americano o dei nuovi messicani ha molto più da raccontare per generazioni, etnie, varianti di sobborghi e quartieri abbandonati. Avanza quello asiatico con più veridicità sociale, storica e umana. Lo riproponiamo invece all’infinito, ostinata presa di posizione cocciuta di visione ideologica, di occupazione merceologica anacronistica e di sottile nascosta richiesta di un caritatevole posto al sole per un paese che non vuole smettere di essere sconfitto. Come i bimbi che non vogliono svegliarsi per non andare a scuola. L’unica cura è almeno un lustro senza neorealismo.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.