2018. Ci sono i festoni di Natale a Via Novara, Milano, Parco del fanciullo, di lato all’ex scuola elementare Luciano Manara e di fronte al commissariato della Polizia di Stato, non lontana dallo stadio di San Siro, nel prepartita Inter-Napoli. Ad un pub i capi della curva Nord tra cui Marco Piovella il Rosso e dietro un alto muro, all’incrocio con via fratelli Zoia, il grosso di un esercito di fanciulli cresciuti, di tifosi interisti e di gemellati alleati varesotti e nizzardi. Tra gli alberi dei giardinetti, un sacco pieno di bastoni ma anche cacciaviti, machete, martelli, un’intero Bricofer che attende, perché deve passare di là, la colonna dei furgoncini con le bandiere azzurre. C’è da vendicare i raid partenopei che due anni prima, incontro di Coppa Italia allo stadio San Paolo, i tifosi nerazzurri avevano subito subire, assieme agli occhi pesti e gonfi, nel proprio settore di appartenenza. L’attacco militare a sorpresa alla tifoseria napoletana, zuffa e tafferugli, non va tanto bene perché un Suv, per distriscarsi dalla malaparata, sgomma e centra, uccidendolo, in mezzo alla via, proprio un capoultras interista di Varese. A Vincenzo Belardinelli, dopo, resteranno solo le parole d’amore della madre e deglil altri tifosi gemellati, i laziali, che a Ponte Milvio, ricordano che un ultras non muore mai, striscione non ammesso allo stadio da cui allora sono andati via anche gli ultras. Non soddisfatta, durante la partita, la curva nerazzura perseguita i calciatori avversari, soprattutto quelli neri di pelle come Koulibaly, non badando ai Joao Mario e Keita, interisti di colore che non battono ciglio. La bolgia ha effetto però perché il francosenegalese si fa espellere ed uno dei maligni sudamericani dà, golletto a zero in zona Cesarini, la vittoria agli uomini di Spalletti. Un morto, tre ultras (Baj, Tira e Da Ros) in carcere, indagini, interrogatori, rischi di reiterazione del reato per il gip Salvini mentre l’omonimo politico minimizza, sospensioni di stadio e di curva, infamia e vergogna, Daspo a gogo, hanno assicurato però al club una vittoria di peso per cui i giocatori confermano abbiamo chiuso l’anno nella maniera migliore. Proprio un bel regalo di Natale. Il 2018 si è quasi chiuso così. Il Natale era già morto da anni sostituito dai regali, in calo. Ora è andato sottozero suggerendo che ad essere più cattivi non si sbaglia. Insegnamento dato durante l’anno dagli ultras juventini, quelli ora imparentati con la ‘ndrangheta, che hanno ricordato con famosi striscioni –Quando volo penso al Toro e Solo uno schianto, la tragedia di Superga che pose fine nel dopoguerra agli incubi di Villar Perosa dovuti al grande Torino.
Poi l’anno è finito con il Fiano furioso, quello un anno fa provò a far passare una legge sul reato di propaganda fascista. Occhio roteante, mandibola dirompente, posa erculea, camicia sbottonata, canottiera di fuori con mammelle manifeste e pancetta di fuori, il deputato ha colpito un leghista di governo con il faldone del testo della manovra, consegnato contemporaneamente al voto per evitare l’esercizio provvisorio. Poi il furioso e violentissimo, nell’ultimo tentativo di assalto all’arma bianca è rimasto bloccato dai commessi che praticamente con queste scene usualmente giustificano gli enormi emolumenti. Non risultano ancora superati gli schiaffi del 2014 ad una deputata grillina. Di fascismo durante l’anno se ne è parlato tanto. Il Decreto Sicurezza è stato paragonato alle leggi razziali riportate sulla rivista fascista La difesa della razza e il ministro dell’interno accostato al Duce. Non parliamo della chiusura dei porti italiani all’immigrazione clandestina che gli ha affibiato scomuniche comunitarie, cattoliche e vaticanensi. Il Guardian si è chiesto preoccupato dei calendari di Mussolini che vanno a ruba. Le Monde da par suo ha equiparato in un’altra copertina il presidente francese Macron a Hitler forse per l’aspetto ariano che entrambi, uno per la statura, l’altro per il colore dei capelli, non hanno. L’europarlamento su istanza di una Pippi calzelunghe di Linke, il partito postcomunista, ha censurato con accuse sottotraccia di fascismo il governo ungherese. L’intera diplomazia ha assitito attonita alle vittorie del fascista siriano Assad, accusato ad ogni piè sospinto di gasicidio stile Graziani mentre i turchi demolivano ad Afrin le frustrate intese francocurde. Non ha badato troppo alla presa del palazzo di Tripoli perché in Libia non c’è un fascista più grosso degli altri. Mettiamoci pure la riabilitazione a Berlusconi che può di nuovo assumere incarichi politici e Moretti che evoca il Cile ed ecco l’accusa è andata montando da tutte le parti, dalle Filippine alla Polonia fino al Brasile. Qui la vittoria di Bolsonaro ha provocato dolore soprattutto perché si sapeva che avrebbe posto fine alla protezione, con gran pianto dell’inclito, per l’ex terrorista Battisti, già da tempo condannato in Italia, ed ora ancora in fuga. Si è resa così manifesta l’indifferenza per il terrore tout court, che sia talebano e dell’Isis o meno, ora che ormai dall’accorato 11 settembre è tanto lontano. In fondo un fenomeno che colpisce platealmente solo in Asia ed in Africa e preoccupa se ci capita la solita cooperante, mentre da noi, vuoi per coltellate vuoi nei mercatini di Strasburgo, è sempre opera di isolati disadattati che altrettanto casualmente magari uccide un giornalista italiano.
Non ci sono stati allerta invece per il mandato presidenziale a vita deciso dalla riforma cinese per Xi Jinping che ha dato il via a numerose purghe, praticamente nessuna per i rischi di guerra tra Ucraina e Russia contro la quale le sanzioni proseguono solo per il Russiagate che a due anni di distanza dalle elezioni, cerca ancora di incastrare Trump. Nessuna per la prova di forza antidemocratica ed antielettorale decisa dal governo spagnolo di Rajoy a scapito del popolo catalano; ed anche qui a Europa muta, il Partito Popolare è caduto non per la repressione ma per tangenti. Di tanta lotta antifascista è rimasta solo la chiusura del Museo Nazionale d’Arte Orientale di Palazzo Brancaccio a Roma, decisa per le colpe ideologiche del fondatore Tucci e che va a fare compagnia ai portoni sprangati all’Eur dell’altro museo chiuso della Civiltà romana. Si è finito per vedere il fascismo dove non è ed a non guardare dove è. Salvini, con una prosa vagamente conservatrice e vagamente socializzante, con la sola prova di forza della chiusura del canale di Sicilia si è assicurato l’amore popolare e l’odio dei professionisti dei media. Nell’anno che lo vedeva inquisito per sperequazione per una 50 di miliardi e per sequestro di persona, il risultato è che il leader della Lega, senza colpo ferire, in dodici mesi ha decuplicato i voti, annettendosi consiglieri, politici, gruppuscoli di tutte le formazioni di destra dai seguaci abbandonati di Casini, a quelli di Alfano e Fiori ai più estremisti.
L’8 dicembre per pudore non c’è stata come negli anni passati discussione su quanta gente potesse contenere una Piazza del Popolo gremita, se due milioni o quarantamila. Quella leghista era piena, con tutte le bandiere nordiste, alcune russe, quelle di Pisa e Trieste in prima fila con in aggiunta veri plotoni di Santa Maria a Vetere, Ischia, Caserta, Avellino, Santa Maria di Leuca, e poi pugliesi, calabresi, siciliani. Il secondo Matteo ha rispolverato i libretti cari al Berlusca che già aveva inventato il polo del buongoverno e della buonamministrazione. Quello di Salvini, non in felpa ma in giacca bleu, si intitolava Buonsenso al governo e citava gli sgomberi, le spiagge sicure, le scuole sicure, le piste sicure contro Casamonica, accatoni e parcheggiatori abusivi finendo con l’odio alla mafia. Nel suo discorso citazioni a Luther King, De Gasperi ed a papa Wojtila. La sua abilità, temprata da un trentennio di difesa leghista dall’accusa di razzismo sempre rintuzzata, è quella di intendersi con l’elettorato per sottintesi. Si veda la presa dell’esempio dei Casamonica, condannati allo sfrattro vent’anni prima, e che erano divenuti corpo manifesto dell’Ostia mafiosa nel processo a mafia criminale che alla seconda botta era riuscito a condannare Carminati, già fascista, per mafiosità (e manca solo l’accusa di massoneria per la quadratura). Ed il Matteo secondo si è impossessato dell’argomento rivoltandolo contro il nemico. Una tattica proseguita constantemente tranne pochi strappi epocali quali l’intesa vecchia di un lustro con la destra francese della Le Pen. Così ora Salvini è il politico europeo più seguito, anche più della Merkel che dopo le elezioni di Assia, ha ceduto la leadership del partito, anticipando il ritiro dal governo. L’opera della Lega, come quella del Movimento 5 Stelle di Di Maio, è ancora tutta da vedere, malgrado il calo degli sbarchi, il decreto Dignità che non ha chiuso la pubblicità al gioco d’azzardo, il decreto anticorruzione votato ma in parte rimandato sine die. Quasi tutto sta, molto ridotto dal taglio europeo, nella manovra votata praticamente a fine anno e permessa dal tracollo di Macron che sotto il caos dei gilet gialli ha dovuto promettere una finanziaria più spendacciona della nostra. Il 2019 dirà gli effetti reali sulle pensioni, sulle tasse flat, sul reddito di cittadinanza. Per ora si registra, a poche ore da capodanno,la debacle di Repubblica, vero partito di opposizione, che torna dopo i tagli di marzo e settembre per 15 milioni a toccare il corpo redazionale con ben 400 esodi e riduzioni d’orario. Un’intesa conclusa tra il direttore Calabresi, il vice Smorto, la AD Gioli, il DG Corradi e l’HR Moro, da un lato ed il cdr (Patucci, Vitale, Saviano, Del Porto e Contini) che è passata solo con 221 voti a favore e 133 negativi.
L’anno è cominciato a marzo in realtà, quando il Movimento 5 stelle di Di Maio con il 32%, e la Lega di Salvini al 17% hanno distrutto il paese del precedente maggioritario di Forza Italia e del Partito Democratico, fermi rispettivamente al 14% ed al 19%. Il loro matrimonio contrattuale è stato simbolicamente consumato dall’amplesso nei bagni del quarto piano della Camera tra una deputata casertana grillina ed un collega meneghinleghista. Il 2018 da marzo sfocerà nel prossimo maggio alle elezioni europee, dove la Lega dovrebbe tesaurizzare un 30% sul terremoto degli altri. Allora si vedrà se il deus ex machina di tutto, il presidente Trump, riuscirà a rendere l’Europa simile a se stessa, stravolgendone il profilo francotedesco, dopo esserci riuscito con l’UK. Sottoposto ad attacchi ininterrotti, il Donald, dopo attacchi inusitati, è riuscito ad avvicinarsi ed avvicinare i governi coreani divisi, nel clima di inizio anno delle Olimpiadi invernali in Corea del Sud. L’uomo che ha licenziato il segretario di stato, due capi dello staff e che minaccia lo stesso capo della Federal Reserve, ha reso ancor più essenziale il suo aiuto all’Arabia Saudita dopo il caso Khashoggi, ha mantenuto lo scontro con la Russia a livelli accettabili da rivali che fanno teatro malgrado gli omicidi su commissione di Mosca; ha superato i midterm senza troppi drammi, ha ripreso l’antico scontro con l’Iran ma in un clima di disimpegno dal Medio Oriente ed ha invece inaugurato un conflitto commerciale con Pechino che lascerà il segno sul commercio internazionale. Questo è il conflitto che più si inasprirà assieme a quelli della grande stampa Usa e del movimento femminista che a Donald hanno dichiarato guerra. Il movimento delle donne ha già raggiunto il suo acme nell’anno presente che ne ha visto una campagna di inusitata violenza; ora di fronte ha la risacca della ritirata.
La grande stampa continuerà a battere sull’obbligo ambientale determinato dal riscaldamento globale, sotto il quale segno finisce per cadere ogni dramma naturale o no, dagli tsunami alle eruzioni, dalle frane alle inondazioni fino alle buche per le strade di Roma fino ai crolli tremendi quale quello del ponte Morandi di Genova. La reazione popolare alle misure draconiane che i soloni scentifici dicono inevitabili rischieranno però di espandere la rivolta, sull’esempio francese, dopo che alla politica ed ai media anche all’accademia scentifica, sempre nel segno populista che innerva tutti gli altri. .
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.