Tra il 14 gennaio, centenario della nascita di Giulio Andreotti ed il 19 gennaio, anniversario della morte di Bettino Craxi, non passano 5 giorni ma i 50 e passa anni della prima Repubblica. Il secondo è stato odiato intensamente per poi cedere lo scettro al secondo, malgrado sotto la pelle della società italiana scorra sempre più frequentemente nostalgia per quel periodo. Basta pensare allo scoppio d’ira che senatori pentastellati hanno avuto per la mostra ospitata dal Senato sull’uomo politico democristiano o al rifiuto di pronunciare il rituale discorso funebre in Parlamento, caso unico, operato dal ferreo silenzio del presidente Grasso. Eppure a lungo all’estero, sia le grandi potenze che i nuovi e poveri paesi, hanno identificato l’Italia politica in Andreotti.
Non in De Gasperi, Nenni, Einaudi, Togliatti, La Malfa, Berlinguer, Moro ecc., ma in Andreotti; le motivazioni, la continuità di rappresentante del popolo, nella Costituente e nel Parlamento, dal ’45 alla morte del 2013 e la longevità di uomo al potere, a 28 anni sottosegretario nel ’47 con De Gasperi, a 35 anni ministro dell’interno, poi altre 25 volte ministro (dei beni culturali, del bilancio, della difesa, degli esteri, delle finanze, dell’industria, delle partecipazioni statali, delle politiche comunitarie e del tesoro), sette volte premier nel ’72, ’73, ’76,’78,’79,‘89,’91. Semplicemente, per una funzione o per l’altra, tutto il mondo che incontrava l’Italia, per 45 anni, ufficialmente o semiufficialmente, in dialoghi bilaterali o collettivi, per tranquilli meeting o per improvvise esigenze, trovava lui, sempre lui, Andreotti come egli stesso ha testimoniato in Visti da vicino quando gli mancava ancora un decennio alla fine politica.
Trovavano lui, anche perché Andreotti era concretamente preparato, presente nelle situazioni; da politico conosceva i funzionari parlamentari e la loro arte e furbizia di redigere le leggi; da ministro conosceva uomini, strutture inclusi corridoi e garage dei ministeri che presiedeva. Senza la pretesa di essere nato imparato, si informava, ricordava, ascoltava, anche il prossimo più umile, non per carità cristiana, ma nella convinzione del proficuo scambio umano. C’era sempre un membro parrocchiale, di un luogo qualunque, che di qualunque vicenda o persona, gli illustrava gli aspetti, noti solo agli intimi. Era dedito all’ascolto, come quei paesani della provincia semplice di Segni dove passò tanta parte della giovinezza, che danno l’idea di non voler parlare senza avere nulla da dire, che con volto compunto prendono seriamente ogni cosa detta. Sembrava facile aggredirlo, con quel fisico vecchio già da giovane, scoliotico ed ingobbito, ma le sue reazioni a fior di labbra sottilissime erano stilettate ironiche e profonde che stendevano l’interlocutore, come avvenne alla Thatcher. Era profondamente romano, cattolico romano, ma con l’animo, filtrato notarilmente dei burini e delle castella.
Non si era montato per la raccomandazione del futuro Papa Paolo VI, né stava fisso come un ramarro, nei meandri del potere, a caso; pur non avendo il discorso roboante pronto, nè il gesto coinvolgente, nè il fisico da tribuno era il parlamentare più votato, a colpi di mezzo milione di preferenze, ad ogni elezione (tranne 6 volte). Teneva rapporti diretti con i suoi elettori con cui condivideva l’idea che la politica, nei limiti dell’opportunità, della morale e della legalità di quei tempi, dovesse realizzare i desideri dei votanti. Umiliava l’ideologia del riscatto dei poveri e diseredati, dando direttamente loro qualcosa di concreto e di garantito per il futuro, senza bisogno di palingenesi sociali. Umiliava la prosopopea, la demagogia, la filosofaggine, la professioralità dei laici. Pur partecipando di un partito di massa, federazione di tanti parti quante erano le comunità del mondo cattolico, metteva a disagio tutti gli altri capobastone, che se erano contrari a leader guasconi come Fanfani, temevano ancora di più il distacco freddo e frigido di un uomo incapace di condividere pensieri ed entusiasmi.
Fu inviso ai più, dentro e fuori il suo partito, che comunque derivava da quel Partito Popolare nato per il riscatto sociale del popolino cristiano, quando Andreotti, invece era un membro in libera uscita dell’elite della Chiesa del Papa Re, un membro del Segretariato di Stato religioso in incognito, capace dello sguardo ampio, cinico e disincantato di un Potere globale che sopravvive da duemila anni, che considera ogni cosa complessa, semplice e viceversa. Per questo apprezzava, al contrario di De Gasperi, anche l’aspetto superstizioso del proprio popolo, utile, nel caso della propaganda dei comitati civici di Gedda che vinsero la battaglia delle elezioni del ’48. Non a caso nella Dc ebbe un seguito fedelissimo, ma esiguo, nel Lazio ed in Sicilia, che governava come monarca generoso. Ancora di più, venne odiato dai laici, che trovavano in lui il vendicatore di Porta Pia, nella ripresa della stretta papalina sull’Italia. Ovviamente era più che odiato dalla chiesa dei comunisti nostrani e dei supervisori russi che potevano ammirarne le caratteristiche non solo simili alle proprie, ma figlie di una scuola più antica, più grande e più genuina nella madre patria della cristianità.
Era filooccidentale, Andreotti, nella misura in cui Chiesa ed Occidente condividevano la strada al punto da preferire apertamente una Germania divisa; dove, come in Medio Oriente, i percorsi si dividevano, Andreotti andava per il suo cammino filoarabo, dimostrando una capacità di indipendenza, che se fosse stata cosa ampiamente condivisa dai politici italiani avrebbe suscitato dure repressioni da parte degli alleati vincitori della guerra. Bracardi, nella trasmissione radiofonica Alto gradimento, svelava l’ira dello squadrista Catenacci che non ammeteva che l’omuncolo gobbo e pretino sapesse affrontare gli americano con più forza dei Lui dalla mascella volitiva. L’accusa mossagli di clericalfascista cadeva nel vuoto, in quanto se era clericale, si adeguava ai tempi da non bigotto; continuava come prima della guerra ad essere espressione dell’unica Entità alternativa ed omogenea al regime. Così i successivi antifascisti e comunisti che avevano militato fra gli universitari fascisti del Guf e nella Rsi, non gli potevano perdonare di essere stato membro di quella Fuci cattolica, unica associazione riconosciuta nelle università durante il fascismo,. Andreotti non era mai stato fascista come Dario Fo o Napolitano e questo altra cosa che non gli si poteva perdonare.
Sardonico sia nel fare governi spostati a destra con i liberali, provare a farli con i postfascisti e condurli in porto con l’appoggio esterno comunista, di cui seppe castrare chimicamente ogni velleità ulteriore, Andreotti reggeva al cambio dei tempi, dei costumi, della coscienza diffusa perché non c’è rosa senza spine, non c’è governo senza Andreotti. Tollerava molto di più, di quanto ne fosse tollerato, minigonne, permissivismo, divorzio, aborto, femminismo, consumismo, reggendosi, con le parrocchie, alla provincia dove ogni cambiamento di mentalità veniva digerito con enorme e neghittoso ritardo. Ovviamente questo spirito reazionario non poteva, per la pubblicistica progressista, essere tollerato tanto più quando capace di rintuzzare ogni attacco e di attirare comunque simpatie popolari per la manifesta rinuncia a migliorare individui e società ed a accontentarsi del compromesso di convivenza.
Mentre montavano sempre più attacchi scandalistici alla Dc, nello stile del pubblico ludibrio, utilizzato sempre dalle estreme di destra e di sinistra, Andreotti era il più sospettato, il più accusato ed il più prosciolto. Con la frana totale di Mani Pulite, i Forlani ed Craxi messi alla sbarra da ladri, Giulio, il terzo del vertice anticomunista, doveva pagare come gli altri, lui che era a lungo stato chiamato a rispondere degli affaire Pecorelli, Sindona, Marcinkus, Calvi, Gelli, Gladio. Non trovando accuse dirette di ladrocinio, si arrivò all’incriminazione più grande di tutte, quella che lo inchiodava da grande mafioso, in un bacio evangelico da Giuda al Padrino, in una lettura storica che sottintendeva l’Italia governata da sempre da Cosa Nostra, come in fondo anche la Chiesa e la Cristianità. Toccò all’ala sinistra dei magistrati, che stavano ricostruendo la politica a loro immagine e somiglianza, intraprendere il megaprocesso di Palermo e Perugia, che rendeva reale molte scene rappresentate in racconti e film. Belzebù era finalmente alla sbarra, in un clima orgasmico, climax di decenni di martellanti accuse dirette e sottintese.
Proprio Craxi che non aveva creduto all’imparzialità di giudizio del clima inquisitorio e che era fuggito, aveva definito, sia pure, in modo bonario, il politico di Segni, Belzebù. Il nomignolo venne invece preso molto sul serio, e con spirito da esorcista ci si apprestò a mondare la politica italiana, Qui, il ferro storto e gobbuto rivelò l’acciaio di cui era fatto; resistette ad una casta inferocita, a mesi di inquisitorie defatiganti, alla pressione di un corpo ideologico che in ritardo voleva soddisfazione prima di vendere, lui sul serio, l’anima al Diavolo. Andreotti ne uscì non condannato, salvato dalla prescrizione, mentre veniva registrata la sua colpa agli atti perché facessero storia. Così chiunque commemori e ricordi Andreotti, cioè la storia d’Italia fa atto masochista da un punto di vista istituzionale. Il presunto clericofascista, continuò a sedere in senato nel partito progressista per coerenza della sua storia, fino alla fine,
Né Craxi, né Andreotti furono mai berlusconiani, pure se Sua Emittenza ereditò quasi tutto l’odio accumulato verso i due, le rispettive accuse, e per certi versi, nei suoi anni di politico, mescolò le caratteristiche dei due, unendo alla guasconeria, al senso del rischio e alla fantasia, cinismo, determinazione ed una tenacia d’acciaio. Oggi al governo convivono l’anima montante dell’indignazione verso i furbi, gli evasori, i raccomandati, i mafiosi con l’avvocato siciliano di Andreotti che con lui condivise una grande vittoria, E’ uno dei paradossi del momento della politica italiana.
Resta da chiedersi, Andreotti fu mafioso? Diede Hitler la massima occupazione alla Germania? Fu Lincoln uno stragista di massa? Quale processo di Lenin e Stalin non fu un falso? Erano mafiosi gli americani che invasero la Sicilia? Negli States ebrei e mafia sono alleati? Domande assurde, improponibili, che pure vengono sempre in mente.
Per chi, come chi scrive, non amò in vita Andreotti, non è masochismo riconoscere che l’Italia per 50 anni dopo il dopoguerra fu Giulio, il quale rimarrà Storia.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.