Sala sale sul carro del vincitore Mahmood, scopre che c’è una periferia di nome Gratosoglio, che la presenza degli immigrati a vario titolo è numerosa, sorvola sulle polemiche vere e giustificate e voilà può decorarsi con una nuova medaglia. Non voglio evidenziare che il brano “Soldi” dell’italo-egiziano sia brutto perché è un giudizio personale, ma ricorrere al politicamente corretto per strumentalizzare la sua vittoria (sempre politicamente corretta), mi sembra una forzatura. Quella frase che proclama la vittoria di Milano e dell’Italia perché Mahmood è diventato il simbolo di un’integrazione nonostante la sinistra abbia programmato qualcosa, è surreale. Il ragazzo come tanti altri ha faticato, lottato, in una periferia dove uno è simile all’altro nelle difficoltà quotidiane.
“Questi giovani artisti sono degli interlocutori importanti: noi siamo partecipi, loro sono voci autorevoli in un certo tipo di mondo, il mondo giovanile che non ignoriamo”, ha detto ancora Sala invitando il rap a palazzo Marino. Si pensa ad un concerto, alla centralità della sua esibizione strumentalizzata in una grande scena, Milano. E Mahmood voleva cantare i disagi e quella malinconia del padre lontano. Ma Gratosoglio rimarrà com’è: il degrado sociale e ambientale non si riscatta con una canzonetta ma si squaderna nel suo squallore.
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano