Da Arlecchino ai Nippo-samurai, da John Wayne all’Uomo senza nome

Cultura e spettacolo
(passando per Dashiell Hammet)

Recensione di Gianfranco Tomei al libro “Dalla Katana al Revolver” di Riccardo Rosati

La storia è risaputa: erano i primi anni ’60, un pomeriggio d’estate il regista Enzo Barboni passò al bar dove solitamente stazionavano pigramente il giovane Sergio Leone e i suoi collaboratori e gli suggerì di andare a vedere il film “YOJIMBO – La sfida del Samurai”, il nuovo film del famoso regista nipponico Akira Kurosawa, già autore di “Rashomon” e di altre pellicole che infiammavano il panorama internazionale della cinefilia d’autore di quel tempo.

“Se ne potrebbe cavar fuori un buon western!” fu il commiato di Barboni, che poi sull’onda di quella intuizione germinale realizzò “Lo chiamavano Trinità” e i suoi seguiti.

Sergio Leone il film lo andò a vedere per davvero (all’Arlecchino di Roma, memorizziamo questo riferimento) ed effettivamente si trovò d’accordo con Barboni: sostituiamo le spade con le colt, e i gonnellini da samurai e ronin con brache e giubbotti da pistoleri e il resto viene da sé.

E il resto venne davvero da sé: il regista contattò i produttori della Jolly film Papi e Colombo, il film “Per un pugno di dollari” (che inizialmente si doveva intitolare “Il Magnifico Straniero”) si fece in Almeria (Spagna) con un semisconosciuto attore americano di fiction (ma allora non si chiamavano così). E contro ogni previsione fu un successo clamoroso esportato in tutto il mondo. Contro ogni previsione tanto che non ci credevano neanche Papi e Colombo, che si erano “dimenticati” di pagare i diritti d’autore alla casa di produzione di Kurosawa, dando il via ad una causa legale che ebbe strascichi decennali.

Il libro di Rosati inquadra bene questo periodo e queste dinamiche, che in Italia risultavano un po’ improvvisate e abborracciate (prendere copioni dall’estero, in questo caso dal lontano oriente e riadattarle in altro modo), mentre negli Stati Uniti queste operazioni risultavano molto meglio condotte, e soprattutto con l’apporto di studi legali esperti in materia di copyright così da evitare le figuracce che rimediavamo spesso noialtri. Rosati analizza infatti il caso dei Magnifici Sette, replica a stelle e strisce de I Sette Samurai, che ne cattura la trama ma anche il senso, i valori e il quadro morale e sentimentale.

Il caso di Leone invece è del tutto diverso. E’ vero che il regista trasteverino riprende in maniera piuttosto fedele i temi e soprattutto lo scandire della storia della “Sfida del Samurai”, ma ne stravolge i valori fondanti, non ne fa più la vicenda di un nobile spadaccino che se la deve vedere con un’intera città di mascalzoni, ma inquadra un anti-eroe cinico e beffardo, che sembra agire sulla spinta dei desideri primari (il sesso e il denaro) salvo poi (quasi) redimersi nel finale. Il tutto incorniciato dalla faccia giovane ma già scolpita nel marmo del futuro divo Clint Eastwood. Questo modello di anti-eroe sarà il calco su cui si formeranno e poggeranno le basi i vari e futuri ispettori Callaghan, Rambo, Cobra, Codice Magnum, Stalloni, Chuck Norris e Schwarzenegger che dir si voglia.

Ottimamente fa Rosati a mettere in collegamento l’epos occidentale con quello orientale, riscontrando punti di contatto e punti di attrito, essendo più vicino quello orientale alla nostra epica cavalleresca medievale e pre-moderna. Pre-Don Chisciotte per intenderci. E questo probabilmente è il motivo del maggior successo commerciale di Leone rispetto al collega Kurosawa, l’aver saputo cioè reinventare l’epica con modi più vicini al sentire del pubblico che affolla le sale dei cinema, l’aver avvicinato quell’epos alle storie ciniche dei gangster e dei mafiosi. E sappiamo come poi proprio fra gangster e mafiosi si avvicinerà e si concluderà, come l’arco di una parabola di grande livello compositivo e di alta architettura cinematografica, la struggente saga leoniana dei losers, degli anarchici, dei fuggitivi dalla modernità della ferrovia e delle rotative dei giornali. Per tornare a rifugiarsi nel fulgore del Mito, di quel Mito da cui era uscito il primo anti-eroe incarnato da Eastwood.

Per tornare a Rosati, il libro è anche corredato da schede tecniche molto accurate, e da una appendice dedicata agli “Spaghetti-anime”, che vede elencate le serie di animazione che devono un tributo ai film makaroni-western e agli chambara alla Kurosawa. Serie in cui scorgiamo citata, con una certa emozione per noi degli anni ’70, il titolo di “Sam, ragazzo del West”, serie giapponese d’ambientazione western che presenta le gesta di un ragazzo che vive le sue avventure lungo la Frontiera americana fra il Texas e il Messico.

Come ultima chiosa, diciamo che il processo che vide contrapposta la casa di produzione di Kurosawa e la Jolly film, per i diritti di Yojimbo, vide un rocambolesco e creativo Sergio Leone portare avanti la tesi che entrambe le storie, quella di “Yojimbo” e quella di “Per un pugno di dollari” provenivano da una stessa matrice, “Arlecchino servitore di due padroni” celebre opera teatrale di Carlo Goldoni, quindi plagio non c’era, o se c’era, era imputabile a entrambe le opere, quella giapponese e quella italiana. Il giudice tuttavia gli diede torto, (sebbene la creativa ipotesi non fosse completamente campata per aria) e la Jolly film fu costretta a pagare una multa piuttosto salata e a cedere i diritti di sfruttamento del film di Leone per l’intero continente asiatico. Una cosa però Kurosawa la confessò: la storia di un eroe che combatte due opposte fazioni di criminali e ha la meglio su entrambe gli venne da un librettino di Dashiell Hammet, il celebre giallista americano: il libro si chiamava “Piombo e sangue”, in inglese “Red Harvest”. Così la radice di un film nipponico che videro pochi spettatori in fumosi cineclub, copiato pari pari o quasi da un italiano che realizzò un western di fama mondiale, proviene dal libro pulp di un giallista statunitense dalla fama di scrittore brutale e sanguinario. E così il cerchio dell’epos fra oriente e occidente è definitivamente chiuso e saldato, in un pari e patta di mitologie che si osservano l’un l’altra e si autoriproducono per germinazione. Se non è globalizzazione questa…

Gianfranco Tomei

(Roma, 1974) insegna Psicologia Sociale e Comunicazione all’Università Sapienza di Roma. E’ docente esperto di Criminologia e Devianza. Regista di cortometraggi e documentari che hanno avuto riconoscimenti in diverse manifestazioni culturali.

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