Bruciano i pinnacoli, la guglia, la foresta di legni intarsiati incrociati e incastrati fra loro che erano il cielo di Nostra Signora di Parigi. Così arse più di un anno fa il tetto del monastero rosminiano ai piedi dell’antichissima abbazia Sacra di San Michele in Val di Susa completata prima dell’anno Mille sul monte Pirchiriano lungo la via Francigena. Le visioni dei luoghi della cristianità in fiamme, trasfigurati, ogni volta, hanno condotto immaginazione e ricordo, ai simbolici Abbazia ed Edificio incendiati ne Il nome della Rosa di Umberto Eco che in realtà, l’autore aveva creato pensando ai Castel Ursino e Castel del Monte, eretti dallo Stupor Mundi Federico II di Svevia, rispettivamente nel 1239 nella ribelle Catania in Sicilia e nel 1240 ad Andria in Puglia a pianta quadrata e sezione ottagonale. In realtà Il nome, thriller intellettuale finissimo, con tanti morti e poco sangue, doveva ambientarsi nel presente storico dell’Italia tormentata dal terrorismo, in particolare nella capitale delle regioni rosse, la città più libera del mondo, come l’aveva definita il sindaco comunista Zangheri, percorsa com’era da indiani metropolitani, teatranti di strada che andavano a scuola del Living Theatre, cina, autonomi, kabulisti, katanga e cento altri differenti gruppi dell’estrema sinistra.
Ribolliva all’epoca il capoluogo felsineo e l’Italia entrante nella modernità, dove non si badava molto ai delitti da quanto erano numerosi, legittimati dalle colpe delle autorità, che legittimavano nell’immaginario collettivo l’irrompere della P38, pistola politica. Il libro doveva ambientarsi a Bologna, con investigatori ecos, a immagine e somiglianza dell’autore, a scandagliare i delitti che erano nell’aria al Dams e che sarebbero esplosi dopo la sua pubblicazione, quando verranno uccisi l’assistente preferita, lo studente preferito,la studentessa modello in macabro ordine prima che, come l’Abbazia lo stesso edificio del Dams di Bologna, circondato dalla giungla metropolitana rivoluzionaria dove non si sente l’eco, andasse a fuoco.
1980, nella città dotta da piazza Verdi lungo via Zamboni gli studenti urlavano slogan tirando pietre e sanpietrini ai poliziotti appena usciti dal blindato, all’angolo davanti al teatro Duse. Arrivati alla fine della via, cominciavano la ritirata in previsione della carica dei militi. In quel tempo e spazio di mezzo, sospeso tra rivoluzione avanzante e berciante, e reazione scudata reprimente, c’era uno slargo, dove all’angolo poi la strada si apre verso Piazza Maggiore. All’angolo dello slargo tre vetrine Feltrinelli, i cui frequentatori, pur pacifici e silenti, sostenevano con tutto il cuore le diverse anime ideologiche e antideologiche dei ribelli studenti; dietro quelle vetrine, Eco, l’autore di Fenomenologia di Mike Bongiorno (1961), presentava la sua eccelsa opera, Il nome della rosa.
Come è stato poi scritto, l’Umberto era già colpevole di spaccio di Dams, tutt’oggi la più pericolosa delle smart drug, che avrebbe partorito, nell’evoluzione formativa, decine di migliaia di inutili ed involuti comunicatori e di esperti in comunicazione, che pur campando di pubblicità, la odiavano, teorizzando l’odio. Gli effetti gabbanellati si ripercuotono ancora oggi a tutti i livelli, dalla Rai al Corrierone alla 7 per generazioni e generazioni perdute. Eco diceva L’avanguardia distrugge il passato, lo sfigura…poi va oltre, annulla, arriva alla tela bianca, lacerata, bruciata poi non può più andare oltre il suo metalinguaggio di impossibili testi, quindi li rivisita. Insomma strilla, sbaglia e mente. Questo era allora il mitico postmoderno. Traducendo, non si può più essere comunisti, ma guai ad ammetterlo. Non a caso, ancora Eco …non faccio che rincorrere ..ossessivamente, una stessa idea, ..ma non so dire quale sia. Non c’è più traccia oggi delle nebbie e dei fumi dei segni, della semiotica, della semiologia, della semisfera, dell’ermeneutica, dell’anagocismo, del citazionismo analitico, del postmanierismo. Di Eco è rimasto il romanziere e l’ammirazione della sua generazione che non sa giustificarla chiaramente.
Il romanzo, con milioni di ammiccamenti e strati di sepoltura delle idee, è un testo filo terrorista che ai lettori dell’epoca parlava molto chiaramente; perciò non poté essere ambientato nella contemporaneità. Tutti i movimenti pauperistici monastici, i loro richiami apocalittici, la libertà dei rapporti sessuali con le sorelle apostoliche corrispondevano alla storia ed alla polverizzazione delle ideologie e dei gruppi comunisti. Come questi ultimi erano sorti da un messaggio occidentale giunto in oriente (il manicheismo del profeta persiano Mani nato in ambiente cristiano permeato dalla religione patria mazdea) e che tornò indietro trasformato, tramite gli anatolici e balcanici pauliciani ed i bogomili, i seguaci delle apocalittiche visioni del beato Gioacchino da Fiore, i gioachimiti, gli pseudo gioachimiti, i gioachimisti le cui simbologie si trovano nella Cappella Sistina, gli iniziatici catari, in greco puri, gli apostolici dell’eccentrico analfabeta parmense Segarelli e di tutti gli ordini mendicanti. Il messaggio manicheo, del Bene contro il Male, facile nell’esposizione e nella comprensione, contro la corruzione dei costumi, per la piena povertà, come descritta nel Vangelo di Giovanni, insinuò i suoi temi spiritualistici in tutte le chiese cristiane ma attecchì soprattutto fra Toscana, NordItalia, Provenza, Linguadoca e Pirenei fino alla crudelissima crociata del 1208-44, che sembrò distruggerlo, con la coda della guerriglia tra Novara e Vercelli fino fino alla condanna papale per tutti gli ordini mendicanti ed ai roghi di Dolcino e Margherita Boninsegna da Arco del 1307. Finché lo slogan Penitenziàgite (abbreviazione della frase Fate penitenza, ché il regno dei cieli è vicino) venne affisso sulla porta del castello di Wittemberg da Martin Lutero, nel nome del protestantesimo, conducendo il manicheismo ala vittoria nel nordeuropa, mentre Francia e Spagna avevano schiacciato l’indipendentismo religioso e quindi politico occitanico.
Eco con chiaro dileggio chiama lo studente monachello, figlio di principi che si accompagna al saggio, con un nome assimilabile a cazzo; fosse stata ragazza, l’avrebbe chiamata fiona. L’eroe, con chiaro riferimento autobiografico è Guglielmo, frate veramente per caso e per opportunità. E’ un inglese dei nostri tempi, da Timeless, assolutamente laico e non credente. Il nemico, astuto e malvagio, il benedettino cieco Jorge de Burgos, è lo scrittore argentino Jorge Luis Borges, assimilato al pensiero reazionario e parafascista.
La Chiesa e l’apparato dell’inquisizione degli inquisitori Fournier poi papa Benedetto XII e dei Gui corrisponde alla macchina reazionaria del 7 aprile 1979 del teorema Calogero che indicava nei cattivi maestri intellettuali le responsabilità del sangue versato. Il nome evidenzia tutte le buone ragioni di rivolta degli eretici e dei mendicanti, cui purtroppo toccava appoggiarsi al’imperatore ( i sovietici) le stesse, che prosegurono per secoli, di Ruggero Bacone Guglielmo di Ockham, Papa Celestino V, Girolamo Savonarola, Cristoforo Colombo. Se la Rai ha voluto far risorgere l’opera dal 4 marzo per il piccolo schermo, non è il segno dl ritrovato interesse per le riflessioni teoriche, non è per la mistica cristiana, non è per il citazionismo o per il detective alla Holmes ma è per le citazioni dei volantini delle Brigate Rosse, per parlare degli Anni di piombo, nell’unico modo in cui se ne possa parlare positivamente. Altro che storia aperta, negazione di interpretazione univoca della storia, labirinti e Ficciones, sfide ermeneutiche e biblioteche. Come scriveva Battisti, il vero delinquente, i libri di Marx non si leggevano, se ne usavano le battute per beccare ragazze.
L’horror del terror che tanto piace ai vip per romanticherie giovanili è alla base del manicheismo odierno, di cui il livello popolare non comprende le radici. E’ un horror che produsse sangue e mali di interpretazione che durano ancora. Anche la battaglia attorno alla Comoedia aristotelica appare falsa e bugiarda. Due secoli prima delle vicende si rideva a Roma con tranquillità delle fole bibliche nella Coena Cypriani. Perché tutto deve essere preso cum grano salis e mai alla lettera; e parlando chiaramente senza miliardi di affabulazioni di nascondimento. Non resta allora che dimostrare quanto l’inutile e ipocrita Guglielmo non sia l’eroe e rovesciare la lettura del libro che doveva chiamarsi Le spine della rosa

Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.