Termina a maggio l’incarico di Guido Raimondi alla presidenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Attualità

Terminerà il prossimo 4 maggio l’incarico di Guido Raimondi alla presidenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

La domanda di ricollocamento in ruolo, in Corte di Cassazione, è stata già deliberata dal Csm.

Raimondi è stato il primo magistrato italiano a scalare i vertici della Corte di Strasburgo.

Napoletano, classe 1953, nel gennaio 2010 venne eletto giudice europeo dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

Dal novembre 2012 ha ricoperto l’incarico di vicepresidente della Cedu, per poi, a partire dal novembre 2015, diventarne il presidente.

Durante la sua permanenza a Strasburgo sono state numerose le sentenze con cui la Cedu ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani.

Alcune meritano di essere ricordate.

La più importante è certamente la sentenza “Torreggiani” del 2013 relativa ai trattamenti inumani e degradanti subiti da sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione.

Una sentenza definita dagli stessi giudici come “sentenza pilota”, in quanto ha affrontato per la prima volta il problema strutturale del non funzionamento del sistema penitenziario italiano.

“La carcerazione – affermano i giudici di Strasburgo – non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato. In questo contesto, l’articolo 3 pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”.

“La grave mancanza di spazio – proseguono i giudici – sperimentata dai ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei ricorrenti un’ulteriore sofferenza”.

Una citazione merita la sentenza “Bartesaghi Gallo e altri” del  2017.

La vicenda riguarda le violenze perpetrate dalle forze di polizia in occasione del G8 di Genova del 2001. In particolare durante l’ormai tristemente celebre irruzione nella scuola Diaz. Irruzione paragonata da un funzionario di polizia intervenuto sul posto ad “una macelleria messicana”.

In questo caso la Corte ha affermato che il trattamento al quale furono sottoposti i ricorrenti deve essere considerato alla strega della tortura, “in considerazione della sua natura particolarmente grave e crudele e dell’acuta sofferenza fisica e psichica causata alle vittime”. “I ricorrenti – aggiungono i giudici – sono stati sia vittime che testimoni della violenza incontrollata della polizia, che si è scagliata sistematicamente nei confronti degli occupanti della scuola Diaz, i quali non avevano commesso alcun atto di violenza o di resistenza”. La Corte ha sul punto richiamato quanto indicato nella sentenza “Cestaro” del  2015, relativo ai medesimi fatti avvenuti durante il blitz alla Diaz, in particolare all’inadeguatezza dell’ordinamento italiano per quanto attiene alla repressione della tortura.

Innumerevoli, infine, sono state le sentenze di condanna per l’eccessiva durata dei processi. Solo in ordine di tempo, la sentenza “Fasan e altri” del 2017 con cui la Cedu ha disposto il risarcimento, respinto in precedenza dall’Italia, per un processo durato circa 30 anni.

Oppure la sentenza “Olivieri” dell’anno prima, con la quale sono stati ampliati i paletti fissati dalla legge Pinto per l’ammissibilità agli indennizzi.

Non si saprà mai, invece, se l’applicazione della legge Severino a Silvio Berlusconi nel 2013 fu violazione dei diritti umani o meno.

“Presi in considerazione tutti i fatti del caso, in particolare la riabilitazione di Berlusconi e il suo inequivocabile desiderio di ritirare il ricorso, la Corte conclude che non ci sono circostanze speciali relative al rispetto dei diritti umani che richiedano di continuare l’esame del ricorso”, scrissero in una nota lo scorso novembre i giudici di Strasburgo.

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