Su una cosa i giornali italiani convergono: la sudditanza all’ex Fiat, ora Fca. In genere gli articoli che la riguardano sono i comunicati stampa aziendali. Non è solo per la spesa pubblicitaria automotive che la fa da padrone non solo da noi (vale $18 miliardi negli Usa, $6,3 miliardi in Cina) con un €1 miliardo, che è il 10% di tutto il mercato pubblicitario, c’è molto di più.
L’inizio, e l’approvazione dei CdA, delle procedure per la fusione Fca-Renault, per creare l’ennesima società di diritto olandese, che sarà al 50% della Fca e al 50% della Renault creerebbe la terza società automotive mondiale ed è stato salutato da tanti hip hip urrà. Fca nel 2018 ha venduto 4,8 milioni di auto, Renault 3.9; l’azienda francese è alleata delle giapponesi Nissan e Mitsubishi che insieme ne vendono 7. L’alleanza stretta, italofrancoamericana sarebbe a ca. 8,7 milioni di veicoli; quella larga italofranconippoamericana a oltre 15 milioni, superando la tedesca Volkswagen, Toyota e Gm. Perché lo fanno? Entrambe le società vanno bene, hanno utili e ricavi. Si dice che Renault ha bisogno di Suv, pickup e di veicoli commerciali e del mercato americano; che Fca ha bisogno delle piattaforme per elettrificare e digitalizzare. Entrambe, che capitalizzano €33 miliardi e ne fatturano 160, prospettano grandi risparmi dalle sinergie su acquisti e ricerca e sviluppo. In realtà per ridurre i costi di 5 miliardi, dovranno, ovviamente senza annunciarlo, ridurre l’occupazione globale di 12mila lavoratori sui 380mila addetti. Poiché i francesi, difesi dallo Stato proprietario, sono 180mila, la riduzione avverrà in Italia ed in Usa, dove già persero il lavoro in 1.600 a Termini Imerese ed in 1.400 a Belvidere, Illinois. Viene cioè, dopo Marchionne, ripresentata la sua strategia, che avrà però bisogno di altri due fattori, sindacalisti corrotti ed i regali di Obama, stavolta a carico di Macron e Trump.
La domanda di nuove auto in Occidente (che include il Giappone) cala verso i 41 milioni e cresce nei BRIC verso i 37 milioni l’anno, 90 milioni di nuove macchine l’anno. Al mondo ce ne sono però già 1,2 miliardi; in Italia ne circolano 37,16 milioni; rispettive età media, 15 e di 11 anni. Finito il tempo degli aiuti pubblici agli automotive nazionali, sono state lanciate campagne di terrore ambientali per spingere i consumatori a cambiare l’auto. Si è arrivati all’esproprio per i 1,5 milioni proprietari delle Euro zero ed i 7,6 milioni proprietari delle Euro 3 immatricolate più di 17 anni fa. 13 milioni sono le auto diesel che non possono entrare nelle grandi città, presto bloccate anche all’entrata nei centri da 30mila abitanti in su. Una vera punizione per il risparmio.
Le future Smart cities digitali non chiedono auto che si guidano o parcheggiano da sole né monitoraggi del traffico che ribadiscono ad ogni ora e per ogni tragitto che ci si muove a passo d’uomo. La digitalizzazione permette la libertà di movimento senza movimento, la libertà di riunione e comunicazione senza spostamento fisico, per tutti i trasporti indotti da motivazioni di dovere, e quindi di lavoro. I danni delle enormi urbanizzazioni con tutto il degrado di bidonville sempre più vaste possono essere sconfitti proprio dall’uso politicamente indirizzato del digitale che può riequilibrare la densità dell’abitato e del vissuto sull’insieme del territorio, ovviamente con misure cogenti e repressive. A meno di non sbranarsi l’un l’altro in megalopoli degradate anche nei centri storici, il digitale rappresenta quindi l’alternativa all’automotive, il cui uso dovrebbe limitarsi ai momenti di piacere per viaggiare fuori dalle città. I grandi auto motive sanno di avere questa tagliola futura. I divieti per le auto povere che ora fanno il loro gioco costringendo i proprietari a comprarne una nuova incombono sui tutte le auto L’opzione dell’auto alla spina può essere l’alternativa all’interno delle città ma non si compirà con la buona volontà del mercato. Il parco autoveicoli italiani sarà all’altezza dei vincoli ambientali del 2020 fra tre lustri quando i vincoli saranno quadruplicati. Ci vorrà mezzo secolo perché i consumatori scelgano auto elettriche dal costo doppio di un’auto media. Dovranno essere gli stati ad imporle con prezzi fissati per legge e le produrranno gli automotive mondiali superstiti su licenza pubblica in un mercato regolato dai timori ambientalistici. Questo determina la corsa degli automotive a stare nella prima decina di futuri licenziari.
Tutti gli automotive procedono così verso l’instabilità pisicologica; responsabili del degrado della vivibilità umana, incapaci di difenderne le libertà personali, dovranno presto rinunciare a promettere libertà e velocità in un mondo affollato dove ci si muove lentamente ed a fatica ed in cui l’unica soluzione è non muoversi. Ed a pensarci innanzitutto è la più debole del palinsesto che si è salvata finora imbrogliando il suo paese e l’America; e che si muove su un altro soggetto psicolabile, quel nippofrancese reduce dall’arresto del suo CEO, Carlos Ghosn. Prima che vada avanti si blindino i posti di lavoro; poiché negli Usa ci penserà Trump, almeno in Italia si passi a misure adeguate, del tipo riprendersi la Ferrari, scambiarla con Montezemolo e minacciare di iscrivere la Juve all’Eredivisie olandese o alla francese Ligue Un

Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.