La giustizia è uno dei temi su cui gli azionisti del governo del “cambiamento” non sono mai stati d’accordo. Con il conseguente schianto di questa settimana. Erano essenzialmente tre i punti di contrasto fra Lega e M5s. Tre punti in grado di stravolgere in maniera irreversibile il sistema giudiziario del Paese. Dal momento che nessuno di questi era “contratto” di governo, gli azionisti dell’esecutivo Conte hanno avuto “mani libere”, con la possibilità di trovare una sponda anche fra i partiti dell’opposizione. Analizziamoli con ordine. Il primo argomento è senza dubbio la separazione della carriere. I leghisti sono a favore, i grillini sono nettamente contrari. La discussione è già in calendario alla Camera per settembre. Il tema non è nuovo. Le Camere penali ne hanno fatto la loro bandiera. Premessa: in nessun Paese con un sistema processuale di tipo accusatorio come l’Italia, il pm è un magistrato. Chi difende l’anomalia tricolore parte da una constatazione oggettiva. E cioè visto che per cambiare di funzioni è necessario cambiare distretto di Corte d’Appello (il pm di Milano che decide di fare il giudice deve trasferirsi a Torino), il deterrente del trasloco limiterebbe i cambi di casacca. Non molto, anche perché chi frequenta i palazzi di giustizia sa bene che quando due magistrati si incontrano per la prima volta, dopo le presentazioni di rito, la prima domanda è: “ma tu di che che ‘dm’ sei?”, intendendo con quella sigla il decreto ministeriale con il quale sono stati nominati. Un po’ come avviene con gli ufficiali riguardo al corso d’ accademia frequentato. È innegabile che fra chi è entrato in ruolo dopo aver vinto il medesimo concorso ci possa essere una certa “vicinanza”. Vicinanza ancora più stretta se questi magistrati hanno frequentato anche la stessa scuola di preparazione al concorso. Ma a parte il reclutamento, i magistrati, sia pm che giudici, per tutta la loro carriera saranno sempre insieme, valutati dallo stesso Consiglio giudiziario e dallo stesso Csm. Oltre al deterrente “trasloco” l’altro argomento utilizzato per difendere lo status quo riguarda il fatto che il pm, in quanto magistrato, sarebbe dotato della “ cultura della giurisdizione” e quindi svolgerebbe indagini anche a favore dell’indagato. Tralasciando la valutazione di quante volte ciò avviene in concreto, la giustificazione cozza con i criteri di priorità nella scelta degli affari penali da parte dei procuratori. In un sistema giudiziario dove vige l’obbligatorietà dell’azione penale i capi delle Procure hanno, infatti, da tempo poteri discrezionali tipici del pm elettivo o subordinato all’esecutivo. Subito dopo, lo stop della prescrizione. A favore i grillini, assolutamente contrari i leghisti. Molti giuristi hanno già definito la proposta in contrasto con quanto previsto dall’art. 111 della Costituzione a proposito della ragionevole durata del processo.
A favore del blocco ragioni “economiche”, del tipo che i soldi spesi per le indagini non possono finire in fumo, e “giustizialiste”, cioè nessuno può farla franca. A mente fredda non è pensabile tenere una persona in ostaggio dei tribunali per tutta la vita. Le tempistiche, i 9 anni per i tre gradi proposti dal Guardasigilli Alfonso Bonafede, sono già ora un tempo spesso insufficiente per celebrare un processo. Tanti i casi, celebri o meno, di processi che impiegano dieci anni solo per il primo grado. La prescrizione funziona come un grande “ cestino” e permette al sistema di andare avanti. Poi c’è un aspetto che nessuno dice: non è affatto vero che tutti i magistrati siano a favore. Il motivo è semplice e va rintracciato nelle statistiche. Se il processo non viene definito resta sul ruolo della toga. Con gli attuali organici in Corte d’Appello lo stop significherebbe la paralisi. Ed infine l’elezione del Csm. Il M5s vuole il sorteggio. La Lega non si è espressa. Argomento ancora più tecnico dei primi due ma d’ importanza vitale per i magistrati.
Le cronache di questi mesi hanno dato conto delle lotte intestine tra le correnti della magistratura per il controllo della Procura di Roma. Le correnti, da luoghi di “elaborazione culturale” si sono trasformate negli anni in centri di potere. Anzi, come disse l’ex consigliere del Csm Aldo Morgigni, in un “ ufficio di collocamento”. Molto si è detto sulle nomine a “pacchetto”, specialmente in Cassazione o al Massimario, dove iposti erano assegnanti in maniera proporzionale alla forza dei vari gruppi associativi. A parole tutti dicono, Anm in primis, di voler cambiare il sistema. Ma alla fine le tanto criticate logiche spartitorie permettono quasi sempre di trovare un punto d’incontro. “Non insistere per questa sede, ti propongo per un altra”, si sentono dire i candidati bocciati che vogliono presentare ricorso al Tar. E’ la cd “compensazione”, la nomina riparativa. L’anno scorso, all ultime elezioni per il rinnovo del Csm, venne lanciato l’appello al non voto per protestare contro il sistema delle correnti: poco più di cento i magistrati che aderirono. Rompere un sistema collaudato per affidarlo alla dea bendata mette i brividi. Ed infatti all’interno dell’Anm sono tutti contrari. Su questo aspetto, chi avrà la forza di imporsi? Sia pur delegittimati dal caso Palamara, i magistrati fanno sempre paura. La palla passa ora al futuro esecutivo.
Nato a Roma, laureato in Giurisprudenza e Scienze Politiche,
ha ricoperto ruoli dirigenziali nella Pubblica Amministrazione.
Attualmente collabora con il Dipartimento Scienze Veterinarie e Sanità Pubblica dell’Università degli Studi di Milano. E’ autore di numerosi articoli in tema di diritto alimentare su riviste di settore. Partecipa alla realizzazione di seminari e tavole rotonde nell’ambito del One Health Approach. E’ giornalista pubblicista iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia.