L’Italia in Crisi: le (ultime?) parole di Conte

Attualità

Siamo alla fine di un percorso, ieri Conte si è dimesso. E, come in Pinocchio, appena ha compiuto un atto davvero a servizio di un ideale più grande, per magia (la fata turchina l’ha citata pure Salvini) in un Premier vero. In mezz’ora mal contata ha scientificamente, asetticamente e senza acrimonia fatto a pezzi il suo vice premier Leghista. Relegato a ruolo di comparsa. Costretto da una coreografia mal studiata a sedere a fianco del suo carnefice. Con un Di Maio, per una volta silente, che sorrideva sardonico dall’altra parte del premier. È stato un pomeriggio di passione, di scontro e di due Italie allo specchio. Che possono efficacemente essere riassunte nei principali discorsi dei protagonisti. In ordine di apparizione.

Conte

Qualcuno insinuava che il discorso sarebbe stato scritto da Casalino. No, non è successo. Se lo è preparato da solo, l’avvocato Conte. Ed è stato un massacro. Che ha capito anche il verduraio, pur non capendone le sfumature magari. È stato l’amaro, doloroso, grido di rabbia di chi viene pugnalato alle spalle dopo aver fatto passare il decreto sicurezza bis. Conte ha riaperto diari e taccuini, ed ha inflitto alcune pugnalate che entreranno nella storia. Primo: non ce l’ho con i ministri leghisti, che anzi ringrazio. Brava gente grandi lavoratori. Con un capo discutibile.

In pratica, la descrizione del popolo Italiano. Prima presa di distanza dal populismo: lui non fa di tutto un gruppo una sola entità. Salvini è Salvini. La Lega è la Lega. Poi ha spiegato che problemi ha Salvini. Matteo li chiama insulti, ma erano più che altro la diagnosi di un medico. Spietata, per carità. Ma mai insultante. Ovviamente, mezza Italia l’ha visto come il lamento rancoroso della moglie lasciata. Ci sta, è il gioco delle parti. Ma tecnicamente è stato un discorso istituzionale. In cui l’ombra di Moro in spiaggia ha tirato un paio di sberle morali al Dj del Papeete.

Salvini

Un discorso piatto, populista, rosario in mano e la voglia matta di rovesciare la narrativa. È lui quello che è stato tradito. Pugnalato da una complessa strategia messa in atto dagli sconfitti delle Europee. Piaciuto ai Leghisti, a chi ha dedicato alla vicenda solo i cinque minuti necessari per sentire un video su Facebook e condividerlo. È l’Italia del Papeete, del rancore, della domanda di sicurezza allo Stato, di protezione allo Stato. E che lo Stato lo preferisce governato col pugno di ferro. Un’Italia che la destra che ho conosciuto, amato, e per cui ho militato, si ès empre fatta carico di incarnare per purificare. A cui venivano detti molti no. Alla quale non si appaltava il governo. Eravamo i custodi del cuore nero di questa nazione. Salvini ha deciso di sottomertivisi. Elettoralmente la cosa paga. Magari si starà domandando perché noi fessi non lo abbiamo fatto.

Quando scoprirà cosa questa Nazione nella Nazione si aspetta dai propri capi, capirà. Ma sarà troppo tardi. Ieri en ha elicitato la corda emotiva finale. All’armi, per la patria e per il capo. Speriamo, preghiamo, che il caldo di Ferragosto non abbia fatto passare il messaggio. Perché se fosse arrivato, non ce ne sarebbe più per nessuno.

Renzi

Breve, conciso, sfumature su sfumature di contenuto. Frizzante, a tratti. Parla ad una Italia pericolosamente spopolata. Potremmo dire egoriferito, se non fosse che è un discorso di sacrificio e rinuncia. Ovviamente nessuno si aspetta davvero che il prossimo e futuribile governo sia privo della sua influenza. Ma ieri ha giocato la parte del padre della patria. E lo ha fatto in maniera concisa, secca, sincopata. Ha parlato a pochi, ma quei pochi hanno apprezzato, Tra l’Italia tecnocratica e quella populista resta un’Italia politica, in cui sfidare Renzi sui contenuti. Speriamo che un giorno torni maggioritaria.

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