Eravamo un po’ naif, come si conviene quando si viene “da fuori” e quella Milano era panna montata frullata ad arte dalla sensibilità con una spruzzata di timidezza che era l’attesa e la meraviglia della scoperta. Erano gli anni fine sessanta. Anni in ebollizione, pirotecnici, grondanti di promesse, attraversati da nuovi fermenti di autodeterminazione. Ed era gratificante stare a guardare ed ascoltare. Sì, c’ero anch’io in quel bar sonnacchioso, grigio di fumo, con un panino, pardon toast, in mano a centellinare i bocconi che dovevano sostituire il pasto. Era denominato pomposamente “Granbar”, ma era il rifugio degli squattrinati di belle speranze. Imparai che Brera è Brera, con il fascino della creatività. Le ombre, la sera, incupivano le strade. Enrichetta, l’ultima inserviente del lussuoso (così dicono) Casino di via Fiori Chiari, barattava un oggetto donato con un pezzo di pane e, possibilmente, una fetta di torta. Nell’ampio grembo che sapeva di buono, abbracciava le idee, i dolori, le speranze. Sì, Milano era una città aperta, che sapeva amalgamare le differenze, che cantava il nuovo, che sapeva valorizzare l’impegno. La nebbia sussurrava intimità e musica. La Milano sguaiata, colorata di spaccio e di arroganza, sporca di abusivismo e di furti, non mi appartiene. E neppure quel credersi Dio dei tanti che monopolizzano luoghi abbandonati, invadenti nelle pretese di emarginarti, astuti con la sicurezza di una superiorità innata. Con chi parlo domani nell’abituale caffè dove ormai ognuno pensa a se stesso, alla sua paura nascosta? Con chi canterò “…Imagine all the people Living life in peace… (John Lennon)
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano