È tornato Pinocchio, il vero e favoloso Pinocchio nel racconto cinematografico di Matteo Garrone. Ed è un Pinocchio che non è forzatamente attualizzato, reso gay o migrante, politicallycorrect. E non è nemmeno un Pinocchio storicizzato. Come quello, ad esempio, della statunitense Suzanne Stewart-Steinberg che dedicò una ricerca universitaria a L’Effetto Pinocchio in Italia (ed. Eliot in versione italiana). Nel saggio, Pinocchio diventa la parafrasi della storia d’Italia e di quel tempo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento in particolare.
Ma Pinocchio non è un libro, e tantomeno un saggio storico: è un compagno di giochi che gode lo strano privilegio di abitare due mondi, tra gli umani e i balocchi. La sua doppia cittadinanza nel regno onirico dei giocattoli e in quello reale dell’infanzia, faceva di Pinocchio una creatura anfibia, una specie di eroe dei due mondi, quasi un piccolo Virgilio che ti guidava nella gita tra la realtà e la fantasia, tramite inferni, purgatori e paradisi.
Il racconto di Collodi era per me bambino la cronaca di un personaggio vero. Della sua storia, oltre il naso etico che si allungava con le bugie, mi colpiva soprattutto il finale passaggio dalla condizione di burattino a quella di bambino, tramite miracolo d’amore e buona condotta. Anch’io quando mi svegliavo, vedevo in mia madre la fata turchina, meno bella e meno giovane ma più accessibile e sempre presente; al risveglio mi pizzicavo le guance per verificare se fossero di legno o di carne. Temevo infatti che ci fosse anche un Pinocchio di ritorno, ovvero il rischio di regredire dallo stato di bambino a quello di burattino, in seguito ad un comportamento birbantesco. Sin da piccolo pensavo che oltre i progressi ci potessero essere i regressi, oltre le evoluzioni anche le cadute; si vede che reazionari si nasce…
Di Pinocchio mi colpivano altre due cose: l’abecedario comprato con grandi sacrifici da Mastro Geppetto e poi venduto dall’ingrato burattino; e la sua trasformazione in asino, in seguito al suo comportamento da ciuccio. Erano due cose che in modo diverso mi stringevano il cuore.
Mi faceva particolarmente tenerezza Mastro Geppetto, la sua solitudine che lo costrinse a costruirsi con una fecondazione eterologa speciale, un burattino per farsi compagnia, il suo statuto triste di single, privo di moglie e di famiglia, la sua povertà e i suoi patimenti per l’inafferrabile figlioccio. Mi dispiaceva che la fata turchina fosse troppo giovane, carina ed evanescente per prendersi come marito un vecchio sfigato come Mastro Geppetto; il mio sogno era trovare una madre a Pinocchio e una moglie al suo dolce padre, che ricordava troppo il suo collega falegname san Giuseppe (come la fata turchina evocava la Madonna).
Poi il ventre della balena, mansarda negli abissi marini, era l’allegoria dell’Oltretomba. E il viaggio di Pinocchio si concludeva con una Resurrezione. Gli altri personaggi di Pinocchio non riuscivo a immaginarli come parti letterari della fantasia: di mangiafuoco e di lucignoli vedevo alcuni esemplari al mio paese, per non dire del Gatto e La Volpe che li avevo identificati in due caporali furbi e inseparabili che di sera in piazza assumevano i braccianti. E di grilli parlanti ne conoscevo almeno un paio, bassini e saccenti, che frequentavano il locale circolo professionisti. Non c’era sito pinocchiesco che non fosse da me identificato in luoghi veri: la campagna e l’albero dei denari, le giostre e i teatrini, perfino la bottega di Mastro Geppetto erano da me localizzati in Bisceglie e nel suo agro. Il ventre misterioso della balena trasformato in una mansarda, illuminata da una lampada a fuoco che non le dava bruciore allo stomaco, mi sembrava davvero cosa dell’Altro Mondo, una specie di Aldilà nascosto nelle profondità del mare. Ma c’era un punto del mare, detto la grotta dei Monaci, dove mi pareva di aver localizzato il sito sommerso di Pinocchio.
A sette anni cominciai a immergermi in mare con la maschera, nella speranza di un incontro favoloso con l’accogliente balena di Pinocchio. Più tardi identificai il suo ventre in una tomba di famiglia.
Mi deluse invece la visita nel parco di Collodi in Toscana; non mi parve affatto un luogo incantato, piuttosto un banale giardino pubblico in memoria di Pinocchio. Abitava in Puglia il mio Pinocchio, nei luoghi mitici e reali dell’infanzia; e non in un parco giochi con biglietto d’ingresso e rivendita di burattini ma nella vita, nella natura e nel genio del luogo.
Il fascino di Pinocchio è proprio in quella magica ambiguità: riuscire a intrigare i bambini di epoche e mondi diversi e insieme apparirti domestico, famigliare, locale, tutto tuo. La vera universalità è quella che parte dalla provincia, e nel microcosmo rintraccia i segni del cosmo intero; il vero mito è quello che sa coinvolgere e mobilitare la realtà, i sogni più belli sono quelli che si impastano con la vita quotidiana. Pinocchio è una favola cosmica e provinciale.
Pinocchio accende la fantasia e rende migliori: la sua trasformazione estetica, dicevamo, combacia con la mutazione etica e la fatina somiglia alla Madonna che intercede e redime. Da grande ho letto il Pinocchio del Cardinal Biffi, consonante con questa lettura religiosa, e quello acuto e smagato di Giorgio Manganelli, gustando il Pinocchio di Carmelo Bene ma non disprezzando nemmeno quello di Benigni e Cerami e infine ritrovandolo nel Pinocchio illustrato da Sigfrido Bartolini. Ma avevo capito tutto da bambino, quando la mente è più incline allo stupore poetico. Con la maturità si diventa meno saggi e si rischia di regredire da umani a burattini. Pinocchio non spiega l’Italietta dei nostri anni o di quegli anni, ma racconta il viaggio umano verso la salvezza. È un viaggio dal padre al Padre.
Marcello Veneziani
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