Sostiene Marco Gervasoni che il sovranismo è qui per restare. L’Autore de La rivoluzione sovranista (Giubilei Reggiani ’19) aveva cominciato analizzando intellettuali, politica e sinistra in Italia ed in Francia studiando Sorel (‘97), Gobetti (’00), Gramsci e la Storia della Francia nel XX secolo (’03), Craxi (’05), Mitterand (’07), gli anni ’80 italiani (’10), quelli della seconda repubblica (’12), la guerra delle sinistre italiane (’13) con il punto di vista degli sconfitti socialisti di Quando eravamo moderni. Il Presidente del Comitato Storico Scientifico della Fondazione Craxi affronta però l’altra faccia della luna nel ’17 con la Francia in nero in cui racconta la destra d’oltralpe fino ai De Pen per affrontare poi il sovranismo di cui Gervasoni scrive, pressoché unico, da sostenitore. Bisogna infatti, come fa l’Autore fra sovranisti e conservatori anche se è abitudine considerarli un tutt’uno.
Pochissime voci infatti cercano di dare una base culturale ad un fenomeno politico considerato rozzo, se non addirittura da malati di mente come per lo psicanalista Recalcati. Gervasoni però non ha radici destre come Sangiuliano o Veneziani, ne è un divulgatore giornalista. Il suo impegno su quello che lui stesso giudica nuovo nazionalismo (già attirandosi strali) gli ha fatto scontare la perdita della cattedra alla Luiss ed una incredibile assenza su Wikipedia che lo snobba platealmente. Lo si può considerare l’ultimo epigone della risacca culturale socialista alla Pellicani, una sorta di approdo alla nouvelle droite (che vide i figli di Aragon comunista passare con lui in massa dall’altra rive). Con i ritardi decennali italiani anche verso l’oltralpe.
Tipica è la sovrabbondanza di citazioni colte (Micheà, Schmitt, Sherman, Kotkin, Lasch, Inglehart, Codevilla, Guilluy, Giridharadas, Greenfeld) in un testo poco più ampio di un agile pamphlet, che è un vero concentrato di concetti nozionistici e che necessita evidentemente di una extended version. Ed è tipica la lettura sociologica di una storia che compenetra tutte le stratificazioni umane malgrado il taglio per flash issues. Lo sfondo è quello della tracimazione innanzitutto della composizione sociale che, come tante altre voci oggi, inquadra l’individuo occidentale di oggi, solipsista, assertore solo dei propri diritti e che odia chi gli è sopra da casta indegna. La rissa rugbystica tra i concetti di borghesia, classe media e ceto medio, le distinzioni dei vituperati piccoli borghesi che si sono ingoiati le tute blu in un tempo in cui scompaiono le qualifiche operaie nei libri matricola, fanno perdere il senso della lettura classista ancora dominante fino agli ’80, sopravvissuta ancora nei ’90. La plebe si è fatta borghese parlando di fine della classe media, quando in realtà a finire erano le classi.
Ovviamente non c’è più neanche la borghesia codina dominante di un tempo, semmai l’1% che possiede il 50%, quello per cui lavorano i Clercs del Gentry liberalism. L’upper class è un cloud di Borboni giacobini con tratti da eterni teen ager, nuova raffinatissima aristocrazia apolide settecentesca, stavolta munita, sia con potere pubblico che privato, di poteri economici, scientifici, militari e tecnologici immensi, con la reale facoltà di distribuire brioches a tutti. Il bello è che è figlia delle pulsioni rivoluzionarie e terroristiche del ’68-’77, delle pulsioni edonistiche concretizzate nel capitalismo deregolato realizzato con la globalizzazione bipartisan dai ’70 negli Usa ed esportata in Europa dall’89.
Senza classi, torna centrale, semmai non lo fosse stata sempre, la lettura delle gerarchie e delle elites di Mosca e Pareto, di Michels e Gilas, di Maranini e di Burnham. Il Ceocapitalism, guidato direttamente dai membri della New class oppure dai manager, sostituti unpolitics dei politici, nella pratica originale dovrebbe guidare un mondo mercato, sempre più gonfiato dalla finanza, sempre più pervasivo digitalmente. Le urla della ragnatela e diritti, sempre più distinti e sottili, in facile confusione con i trend dei nuovi consumi, pretendono manager tecnoburocratici giudicanti venuti a dirimere i sottili confini tra la miriade di diritti e preferenze individuali. Il potere si esprime attraverso dei Manchiurian candidate al tempo stesso espressione dell’OccupyWallstreet e della Meritocracy manageriale. Il digitale, neo deus ex machina, irrompe fattivamente espandendo istericamente i primi due fattori ed introducendo l’idea della democrazia direttissima dove l’individuo espanso dialoga direttamente con il suo gemello, un Dio secolarizzato, centro di ogni potere.
Trasformazioni ancora in progress di cui non si può negare la positività. Salute diffusa, calo della fame nel mondo del 31% in un decennio, ricchezza mondiale di $ 360mila miliardi in crescita del 2,6%, 100 milioni di cinesi e 99 milioni di statunitensi, membri dell’elite globale. L’ascesa delle tre rivoluzioni, però, l’individuale, la manageriale, la digitale, si ferma dieci anni fa con gli scatoloni di Lehmann Bros al posto delle revolverate di Sarajevo.O meglio più che fermarsi cominciano a destare opposizione. Fino al 2008 in Usa, al 2010 in Europa i risultati positivi sopisono le contrarietà, in genere sopravvissute negli ambienti anticapistalistici. Dopo le proteste d’indignazione si allargano a chiunque senta che il nuovo carosello capitalistico kerosene vive di troppa precarietà nella distruzione e ricreazione di ricchezza. L’esigenza di stampare moneta a gogo annulla ogni idea meritocratica. Più gravemente, l’esportazione del modello anglosassone non mina di un grammo la compattezza degli ex regimi comunisti o dei comunistocapitalisti, anzi. Quest’ultimi diventano, o tornano, giganti mantenendosi impermeabili con vittorie sempre più eclatanti di politica estera e economica; soprattutto affinando al massimo grado la propria identità etnonazionale. L’Oligocrazia ha fatto tutti più ricchi, ma a svantaggio dell’Occidente che non è più guida, né digitalmente, né managerialmente. Gli resta l’esponenziale richiesta dei diritti dei suoi individui merce, che devono essere però moderate di fronte alle esigenze globali, in primis le immigrazioni.
Qui nasce il Sovranismo, nella recessione del 2007-2008. Gervasoni sottolinea che si tratta di un’idea, che può contenere al suo interno posizioni di destra e di sinistra. Infatti il sovranismo parte dalla convinzione che l’apertura mondiale non si stata omogenea, essendo rimasta l’Asia fondamentalmente chiusa e protezionista di fronte all’Occidente aperto. Se il progressismo, in cui si è trasformata la sinistra, sposa in tutto e per tutto aperture e ambientalismo unilaterale, che presta il fianco ad un peggioramento dei rapporti di potere ed di economia con l’Asia, è evidente che il sovranismo finisce con il coincidere con il pensiero conservatore.
L’individuo occidentale preso dall’angoscia per il piano inclinato in cui vede proiettate in discesa vita e tenore di vita, cerca un freno alla perdita di indipendenza produttiva ed esistenziale. Il processo della sua liquidità non è però cominciato con la recessione finanziaria ed è per lui estremamente difficile ritrovare l’identità perduta, che non può essere di ceto, di mestiere, di classe e neanche di territorio. Certo, di fronte al richiamo del pensiero unico dell’unico impero globale, è facile contrapporre la nazione, la regione, la città. Ed infatti Gervasoni non manca di ricordare quanto sia stata distrutta l’idea nazionalista, praticamente impronunciabile presso i guardiani della cultura.
Ad un’esigenza forte, il sovranismo così associa un desiderio di restaurazione e di ritorno temporale all’indietro che sa impossibile. Il potere oclocratico di massa che lo sostiene crede nella sua capacità di restituirgli un’identità difficile da reinventare. La matassa di sistemi digitali, di trattati e sentenze internazionali, di vincoli regolamentari e commerciali è la forza razionale del sistema globale costruito dall’oligocrazia, fatto solo per crescere, inadatto in caso avverso. Il sovranismo può solo opporsi ai risultati finali dei sistemi andando contro tutte le regole ed i presupposti che li hanno prodotti. E già quest’opposizione agli effetti che non tocca le cause è motivo di scandalo per i controllori del sistema.
L’elettore sovranista è già grato per questa rivolta, che si svolge tutta dentro il potere, e che non lo smentisce. Probabilmente quest’elettore non sosterrebbe la drastica rimozione delle cause, che stanno in trattati, standard ed alleanze consolidate. Non è disposto a credere alla propaganda dell’oligocrazia del miglior mondo possibile che lo vorrebbe elettore razionale ma non è proprio però neanche del tutto irrazionale.
Scorre intanto una guerra culturale unilaterale contro il sovranismo versione conservatrice, identificato con il fascismo, secondo facili uguaglianze tra protezionismo ed autarchia. E’ facile capire che l’idea è bislacca, essendo la nostra società totalmente aperta. Vent’anni di mancata crescita dipendono anche dall’assenza di indipendenza, dovuta all’indecisionabilità e dai lacci e laccioli interni ed internazionali. Non comprensione e repressione mediatica e oligarchica dei problemi posti dal sovranismo, non potranno che condurre ad una sua versione ancora più aggressiva, come in ultimo evidenzia Gervasoni.
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Giuseppe Mele
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.