Ma è possibile che ogni frase del linguaggio corrente debba contenere un organo sessuale maschile? Volano czz dappertutto (cito in codice fiscale), in ogni fascia sociale, territoriale e anagrafica. In uso anche tra chi ne è privo, come le donne. I media che le riportano ne hanno reso pubblico e normale l’uso quotidiano. La dittatura del sesso comincia in bocca: czz è la password nazionale, la parola identitaria. Lancio allora una raccolta di firme bipartizan per tagliare il czz alle parole: è inutile, sta male esteticamente, è pleonastico, allunga il discorso di un’appendice superflua nell’era della brevità e della velocità, involgarisce la locuzione in un gergo da trivio e da caserma, è un residuo di maschilismo, anche se spesso rigurgita nel femminismo.
Basta, castrazione lessicale; o almeno razionatelo, un czz al dì, domeniche escluse. Tirarlo in ballo così spesso e a sproposito è oltretutto un’irriguardosa violenza verso l’oggetto stesso, mortifica il suo prezioso ruolo riproduttivo e il suo appeal erotico, ma anche la sua mite e riservata attività urinaria: le minzioni non vogliono menzioni. E invece sempre piantato lì, in mezzo a tutti i discorsi, come i vastasi di paese che parlano grattandosi il pacco. Anche chi ricorre al dito medio eretto adotta una specie di turpiloquio gestuale per la pagina 777 di Televideo, dedicata ai sordi. Possiamo dire che quest’eloquio cazzifero col suo relativo gadget ci ha rotto il medesimo, agglomerati scrotacei inclusi?
Marcello Veneziani
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