L’Unione Europea è divisa in due lungo il crinale di due interpretazioni di come rispondere alla necessità indotta dalla pandemia: più profonda unione fiscale e politica da un lato, e statu quo dall’altro. Al primo partito appartengono i paesi che hanno fin qui più sofferto le conseguenze sanitarie del coronavirus e che a breve ne subiranno le consequenze economiche. La lettera di Giuseppe Conte, che chiede all’Unione di «finanziare, in tutti gli Stati Membri, i necessari investimenti nei sistemi sanitari e le politiche temporanee volte a proteggere le nostre economie e il nostro modello sociale», ha avuto il sostegno di Spagna, Francia, Grecia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Portogallo. Dall’altra parte della barricata stanno i paesi degli “Imperi centrali” con Austria, Germania, Ungheria e Polonia insieme agli alleati scandinavi e all’Olanda. Se non fosse per l’eccezione polacca, verrebbe spontaneo semplificare i due partiti con le rispettive tradizione etico-religiose: paesi non protestanti e paesi protestanti.
La richiesta dei nove paesi è stata accompagnata da una rigidità che ha trovato molti impreparati, illusi di trovare un altro tipo di risposta dopo gli attestati di solidarietà venuti da Angela Merkel e, soprattutto, dopo l’articolo progettuale di Mario Draghi, uscito sul “Financial Times” e che ha fatto come da apripista a quella richiesta. La risposta a questi interventi è stata patetica: una decisione di rinviare la decisione; quindici giorni di riflessione. Si tratterà molto probabilmente di un tempo di grandi manovre, nel corso del quale i singoli paesi, quelli più esposti e in bisogno, si muoveranno con incontri bilaterali con paesi terzi. Per mostrare la loro forza e per usare come deterrenza la possibilità di cooperazione con paesi extra-europei. Ha cominiciatoMacron che ha aperto la strada di una relazione con gli Stati Uniti. A chi si rivolgerà l’Italia, già abbondamente oggetto di attenzione (tutt’altro che filantropica) da parte dei colossi autoritari, Russia e Cina?
Insomma, lo spettacolo che ci propone l’Europa è dei più scontati – uno spettacolo che ripete scenari da pre-Unione Europea, con gli stati che si muovono per ordine sparso, in ragione dei loro essenziali interessi nazionali. E se tra due settimane l’esito sarà un nulla di fatto, lo scenario realistico sarà quello di un’Europa formalmente in piedi ma di fatto una terra di conquista degli imperi. Nulla cambierà ma tutto sarà diverso.
Converrà questo agli stati-membri rigoristi? Sarà il loro isolazionismo purista una via saggia? Domande per nulla fuori luogo, poiché alla malattia seguirà il bisogno, e anch’essi subiranno gli effetti dei problemi che attenderanno i paesi più colpiti. Non c’è invero nessuna lungimiranza nel loro nazionalismo. Supponendo (ma è una supposizione senza alcuna certezza) che possano passare quasi indenni la pandemia, potranno difficilmente non essere toccati dalle conseguenze economiche che essa avrà nei paesi devastati dal contagio. L’egoismo nazionale non gli sarà alla fine di gran beneficio. E’ una questione di tempo. Ma se questo è lo scenario, se l’Europa non c’è proprio quando più dovrebbe esserci, anche gli europeisti più convinti possono legittimamente chiedersi: a che serve questa Europa?
blog Nadia Urbinati Professor of Political Theory, Department of Political Science, Columbia University
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