Marco Trivelli è il Direttore Generale degli Spedali Civili di Brescia, realtà di 6700 persone articolata su tre ospedali, il principale di Brescia più le 2 strutture ospedaliere di Montichiari e Gardone, e una rete territoriale molto ampia in ambito di servizi assistenziali.
Con i dott. Trivelli abbiamo fatto il punto sull’approccio sanitario nell’emergenza in una delle zone più colpite dall’epidemia di Covid 19, tra organizzazione e cura a partire dalla centralità della persona.
Brescia, insieme a Bergamo, è stata duramente colpita ma ha saputo reagire e resistere. Com’ è andata fino adesso nella gestione dell’emergenza?
Brescia ha reagito da un punto di vista organizzativo del ricovero in modo molto ordinato malgrado la pressione altissima e l’affluenza di pazienti che necessitavano e che necessitano di assistenza respiratoria in modo continuo. Agli Spedali Civili abbiamo trattato ad oggi circa 2600 pazienti positivi, di questi circa 600 sono stati dimessi a domicilio all’accesso dove, verificata la positività al tampone è stata data una terapia compatibile con una condizione di isolamento obbligatorio a domicilio, circa 2000 sono stati ricoverati. Di questi 2000, 700 sono ancora ricoverati, poco più di 400 purtroppo sono morti, abbiamo avuto 600 guarigioni e poi per il resto circa 250 trasferimenti in altre strutture sia bresciane che della provincia di Milano e di Lecco.
Sono numeri da guerra. Qual è stata la vostra strategia?
La nostra reazione è stata buona dal punto di vista organizzativo per alcune scelte iniziali che ci hanno permesso di non essere in ritardo rispetto all’arrivo dei pazienti, ma di essere anticipatori. Alcune di carattere sanitario, per esempio abbiamo isolato completamente con delle mura, creando un perimetro fisico, una delle due terapie intensive principali che abbiamo, così quando sono arrivati i pazienti con necessità di un’assistenza intensiva eravamo pronti e capaci di affrontarli. In un mese abbiamo aumentato le postazioni di terapia intensiva di 51 unità, passando dalle 34 iniziali alle 85 dieci giorni fa. Un’altra scelta fondamentale, che probabilmente ha fatto la differenza, è stata la creazione di una struttura esterna che deviasse i percorsi dei pazienti auto presentati in Pronto Soccorso con sintomi respiratori, inizialmente con 16 posti letto fino ad arrivare a 130.
Perché è stata fondamentale questa scelta, rispetto alle altre?
Questo ha consentito di tenere più ordinato il Pronto Soccorso e di poter permettere ogni giorno, quando si convertivano i reparti ordinari in reparti Covid, di far entrare i pazienti non sulla base della pressione del Pronto Soccorso ma sulla base della capacità di accoglimento, uno per uno, da parte dei reparti nuovi. La regola era che ogni 20 minuti si poteva portare un paziente in reparto, in modo tale che fosse sempre accolto individualmente, inquadrato dal punto di vista clinico dopo il primo triage del Pronto Soccorso, messo a letto e messo sotto terapia, dopodiché si poteva accogliere un altro paziente. Questo ha permesso di non farsi soverchiare dal numero di pazienti degli accessi.
Brescia è la provincia con il minor numero di contagi tra il personale sanitario. Quanto hanno inciso queste scelte anche nella tutela del personale?
Abbiamo una percentuale di contagi che considero molto alta e quasi inaccettabile, però è quasi la metà di tutte le strutture della provincia di Brescia e di Bergamo. Noi siamo all’8% di contagiati, ci sono strutture che sono al 20%, la media è dal 15% in su. Da subito abbiamo disposto la chiusura della mensa, è stata vista inizialmente come misura eccessiva, però ha evitato un certo numero di contagi tra le nostre persone. Inoltre il nostro orientamento è stato quello di chiudere l’attività ambulatoriale da subito, non perché non volessimo farla, ma non eravamo in condizione, con i dispositivi di protezione disponibili, di difendere le nostre persone. Quindi abbiamo individuato le prestazioni ambulatoriali da garantire, come le urgenze, e selezionato quelle programmate ritenute importanti. Siamo passati da 5000 visite giornaliere a 1000, un grandissimo danno nel tempo se proseguisse, però ha permesso di difendere i nostri e di organizzare 4500 persone che lavorano su Covid in modo ordinato.
È notizia di questi giorni che gli Spedali Civili di Brescia diventeranno centro di riferimento Covid per il post emergenza. Come mai è stata scelta la vostra struttura?
Penso che nessuno fosse preparato e potesse immaginare all’inizio che cosa sarebbe avvenuto, neanche provando a studiare la Cina. Però è importante imparare tutti i giorni, osservare molto rapidamente e non lasciare mai nulla di scontato e intentato. Abbiamo intrapreso tutte le possibili strade per rispondere al fatto di dover ricoverare ogni persona che avesse bisogno di un’assistenza respiratoria e ci siamo riusciti. Questo ci ha permesso di fare delle cose impensabili nel giro di tre settimane, passare da 0 a 850 pazienti ricoverati, Bergamo ad esempio ne aveva 450. La forza degli umili è stata quella vincente in questa partita, non solo l’organizzazione. Bisogna avere la capacità di imparare, noi ci siamo accorti che tutti i moduli esistenti, assistenziali e infermieristici, sono inadeguati rispetto a questa malattia, persino il reparto di malattie infettive. Quello che abbiamo appreso è che bisogna cambiare il modulo assistenziale. Questo ha spinto la Regione a indicarci come centro di riferimento, una struttura che sia dedicata a Covid, per i pazienti che non possono stare fuori dall’ospedale, perché c’è anche questo fenomeno molto importante da non trascurare, anzi è il prevalente per il futuro. C’è la necessità di creare un’area di specialistica che non si può mettere fuori dall’ospedale, però con tutte le cautele e le attenzioni del Covid. Quindi stiamo creando una struttura di 160 letti che sarà pronta entro 8 settimane, in cui possiamo applicare i criteri nuovi di degenza che abbiamo pensato per favorire l’assistenza infermieristica, in una struttura dedicata che accolga innanzitutto i pazienti specialistici, poi eventualmente i pazienti Covid che non restano presso le malattie infettive. Stiamo imparando tanto e possiamo essere di riferimento.
L’ondata di ritorno è data praticamente certa, cosa vi aspettate nel prossimo futuro e come vi state preparando per affrontarla?
Noi che dobbiamo organizzare cura, dobbiamo essere pronti. Avendo imparato da questo mese, dobbiamo pensare che ci possa essere un ritorno. Credo che l’emergenza ospedaliera sia veramente in flessione e spero per metà, fine maggio che i ricoveri da 850 di 10 giorni fa si possano ridurre tra i 100 e i 200. Non penso che si possa estinguere completamente il fenomeno dei ricoveri Covid. Quindi questo significa prepararsi, se in autunno ci fosse una ripresa dei ricoveri come qualcuno paventa, bisogna essere pronti. Noi ci stiamo attrezzando con il fatto di poter convertire da ordinario a Covid 400 letti, compresi questi 160 che stiamo predisponendo in un’area oggi parzialmente utilizzata, più con il progetto della struttura esterna di circa 250 letti. Quindi Brescia, Spedali Civili, potrebbe avere facilmente a disposizione dai 500 ai 750 letti. La vera sfida mi sembra sul territorio, cioè sul fatto che questi pazienti che escono hanno delle gravi fragilità quindi devono essere monitorati attentamente. È necessario impegnare tante risorse sul territorio, bisogna convertire parte delle risorse ospedaliere sull’assistenza domiciliare e sui monitoraggi, usando tutte le armi per il monitoraggio, tutte le forme della medicina generale, tutti i soggetti curanti che abbiamo sul territorio. Penso che la concentrazione principale dei prossimi mesi sia su questo, ci saranno ricadute diverse da Covid ma provocate da Covid. Dobbiamo investire risorse su questo, sulla sequela.
È necessario un approccio diverso?
È importante capire che è ancora guerra, non possiamo affrontare una dimensione di emergenza assoluta, come quella vissuta in queste settimane, con gli occhi dei tempi di pace. È un approccio inadeguato, soprattutto fa dimenticare che c’è un’emergenza attiva, sia perché potrebbe riprendere, sia perché ritengo che per due anni gli ospedali debbano essere pronti. Non possiamo più essere tranquilli su niente, tutti gli accessi in urgenza possono nascondere un paziente Covid. Per due anni, fino a quando non ci sarà una vaccinazione di massa, non il vaccino – quindi passerà ancora del tempo – dobbiamo usare degli accorgimenti, un’attenzione di grande allerta per essere sicuri di non riaprire focolai con i nostri comportamenti pur virtuosi, pur buoni come può essere curare una persona.
Alla luce di quella che è stata la vostra esperienza potete sentirvi preparati?
Penso che saremo in grado di gestire meglio un’eventuale ripresa, sono sicuro. Non per me, ma per come le persone si sono mosse e per come sono state attente nell’evolversi di queste settimane, si è capito che tutti hanno imparato. Siamo diversi, abbiamo molta più strumentazione perché in queste settimane ci siamo molto arricchiti sia sotto il profilo della conoscenza dei comportamenti, sia sotto il profilo strumentale. Abbiamo 51 postazioni di terapie intensive in più, abbiamo respiratori, abbiamo finalmente un accesso alle mascherine e ai dispositivi di sicurezza molto più sicuro, costante e adeguato al fabbisogno giornaliero rispetto ai primi giorni. Abbiamo 4500 persone che lavorano su Covid su 6700 e gli altri 2000 che lavorano sull’urgenza.
Cosa vi ha insegnato tutta questa situazione?
Che si può cambiare. Spedali Civili come tutte le realtà pubbliche possono sembrare realtà abbastanza lente e lo sono. Si lavora sempre sulla procedura, perché la pubblica amministrazione deve viaggiare senza rischio, invece provare a lavorare sui risultati come è avvenuto in queste settimane ha fatto vedere che anche Spedali Civili, gli ospedali pubblici, hanno la capacità di cambiare rapidamente. 4500 persone che cambiano mestiere in un modo assolutamente ordinato, anticipando sempre di qualche ora quello che era il flusso in ingresso, lavorando in rete con le altre strutture, cambiando assortimento di professioni, facendo questo tipo di operazioni con grande compattezza, questo vuol dire che si può cambiare. È una memoria che vorrei trattenere di queste settimane, oltre che di quanto sia vero e importante che la cura è un fatto di persone. Reputo che questa possibilità di aver avuto un ordine sia legata non solo e non tanto all’organizzazione, quanto alla capacità delle singole persone di non essere completamente tramortiti da ciò che, mai visto prima, è successo in queste settimane ai pazienti e agli operatori. Le prime settimane sono state incredibili, ed è emersa la cura nella sua radice: possiamo anche non essere capaci di curarti ma ti dobbiamo accogliere. Questo è stato il movente di tutta la nostra azione. All’inizio c’è il valore delle persone assoluto a prescindere dalla curabilità, con tutta l’ambizione di curarla, che manteniamo. Per questo dobbiamo impegnarci sulla ricerca e stiamo cercando di allearci sia con strutture italiane che internazionali perché, essendo stati nostro malgrado uno degli epicentri mondiali del Covid, vogliamo anche essere uno degli epicentri della conoscenza.
Ha uno sguardo positivo sul futuro?
Io sono sicuro che riusciremo a curare questa malattia. Ci vorrà del tempo, ma se non perdiamo la memoria di queste settimane credo si possa fare una vita sociale e un servizio sanitario più forti con le risorse attuali. Di questo sono confidente.
Micol Mulè
Laureato in legge col massimo dei voti, ha iniziato due anni fa la carriera di startupper, con la casa editrice digitale Leo Libri. Attualmente è Presidente di Leotech srls, che ha contribuito a fondare. Si occupa di internazionalizzazione di imprese, marketing e comunicazione,