E’ del tutto necessario mantenere alta l’attenzione per favorire il netto e continuo declino di contagi e di morti, ma non è purtroppo escluso che si debba imparare a convivere con questo virus per un tempo oggi indefinito. Per questo il Paese, che non può sopportare un drastico ed improvviso abbassamento delle condizioni di vita né per le note ragioni sociali né per le imprevedibili conseguenze politiche, deve ripartire economicamente.
Naturalmente a condizione, cosa del tutto possibile, che siano rispettate le condizioni di sicurezza di chi lavora come concordato tra le parti sociali. Produzione e raccolti, trasporto e distribuzione devono riprendere a funzionare. In questi mesi alcune attività non sono cessate ma è legittimo il timore che l’insieme del nostro apparato produttivo, di cui viene ad ogni piè sospinto ricordato lo straordinario potenziale dell’export, venga indebolito dalla concorrenza degli altri paesi che sono rimasti “aperti”. Una volta persa una quota di mercato non è facile riconquistarla.
Altrettanto pragmatismo serve per l’erogazione del credito alle imprese non alle condizione del “Cura Italia” ma con prestiti a ben più lungo periodo e a tassi simbolici. Così come è discutibile un rinvio a breve degli adempimenti fiscali, più realistico mettere in conto che una parte di queste entrate siano cancellate. E’ in fondo la stessa logica della cassa integrazione, un ammortizzatore sociale che ha sempre svolto una funzione sociale determinante per la stessa stabilità democratica e che sarebbe bene cominciare a pensare di estenderla seriamente, individuando tempi e condizioni, anche al mondo del lavoro autonomo. Ma se dalla crisi ne usciremo diversi e se le imprese dovranno riorganizzarsi, cosa vorrà dire questo per sindacati e imprenditori?
Credo sia non solo inevitabile ma necessaria una forte spinta del baricentro delle relazioni sindacali del “Bel Paese” verso la dimensione aziendale, in cui la convergenza di interessi comuni primari tra lavoratori e datori porranno la difesa della “propria” impresa come obiettivo principale. Naturalmente molto dipenderà dagli atteggiamenti imprenditoriali. Dovranno essere abbandonate vecchie logiche padronali per acquisire la consapevolezza che se un’azienda è un bene comune della proprietà ma anche un po’ dei dipendenti e delle comunità, la gestione deve essere “aperta”, l’informazione corretta, le decisioni possibilmente condivise. Ciò vale oggi per la sicurezza nei luoghi di lavoro. I rappresentanti sindacali possono essere preziosi “ambasciatori” aziendali nel valorizzare prodotti e servizi ma anche nei rapporti politici e istituzionali ad ogni livello e le organizzazioni confederali possono disporre di utili elementi informativi per delineare le proprie scelte strategiche.
Del resto la concezione del conflitto di classe in termini antagonisti, degli interessi inconciliabili tra capitale e lavoro si é affievolita da tempo. Una fabbrica fallita è solo una fabbrica chiusa. In fondo un approccio di “cogestione” è quello già adottato nelle fabbriche rimaste aperte in cui sono state definite norme di sicurezza e misure di “premialità”. Se anche i datori di lavoro sapranno creare le condizioni si affermerà come valore la centralità e la priorità della tutela dell’impresa, per la difesa dei suoi lavoratori e per il benessere del territorio.
Non si tratta di un passaggio a logiche egoistiche e corporative aziendali (l’impresa è in sé centro di interessi comuni) ma di un progetto di rinascita economica per sopravvivenza fondato su nuovi valori e identità, sulla consapevolezza che si può distribuire solo quello che si produce e non solo in funzione della produttività e della redditività ma anche delle professionalità e delle responsabilità. Né sarebbero intaccati i valori della solidarietà: laddove la contrattazione decentrata si è affermata ne hanno beneficiato i territori e le comunità.
Potrebbe essere la grande stagione della contrattazione aziendale. Del resto l’idea di redistribuire redditi in settori e aree geografiche economicamente deboli semplicemente attraverso aumenti contrattuali nazionali non può ignorare le imprese marginali che, se spinte fuori mercato, nella migliore delle ipotesi si rifugeranno nel lavoro nero e sommerso.
In Germania la prevalenza di imprese di dimensioni medio-grandi rende più semplice uscire dal contratto collettivo nazionale per dar vita ad un contratto nazionale per la singola azienda, come è avvenuto per il caso Fiat.
Non è necessario allo stato attuale aprire un dibattito, che sarebbe inutile e fonte di infinite polemiche, sulla opportunità di prevedere esplicitamente l’uscita dal contratto nazionale. Oggi, per riaprire l’Italia, una scelta, non solo possibile ma necessaria a causa delle inevitabili esigenze di riorganizzazione delle imprese, è l’allargamento degli spazi contrattuali a livello aziendale, accompagnati da ulteriori incentivi fiscali e l’attribuzione ai contratti collettivi nazionali di un compito di regolazione generale minima delle retribuzioni e di tutti gli altri istituti.
Last, but not least, il rafforzamento della contrattazione aziendale avrebbe anche l’effetto di coinvolgere direttamente tutti i lavoratori interessati, di farli partecipare alle decisioni e di rafforzare la rappresentatività dei delegati e del sindacato attraverso un innalzamento dei livelli di democrazia. Purtroppo, se il paese non riparte le organizzazioni imprenditoriali e quelle sindacali si ridurranno ad un ruolo assistenziale.
di Walter Galbusera (Start Magazine)
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845