Punt e Mes. Mes, punto e basta tra le tante chiacchiere e le invocazioni di bond basati sull’eurobilancio dai vari nomi più o meno ispirati, emergenza bond, recoverybond, virusbond, coronavirusbond. Invocati e richiesti da un decennio, sono stati sempre respinti e sempre lo saranno perché partono dall’idea di sommare in un unicum tutti i bilanci degli stati dell’Unione Europea, annacquando l’enorme debito italiano, il grosso debito iberico e quello minore francese con gli altri bilanci. Dieci anni fa fra gli indebitati c’era un paese nordico, il Belgio, che però nel frattempo si è risanato e dunque le condizioni sono oggi ancora più ostiche. Se le banche fossero transazionali come la valuta, non ci sarebbe problema ma non è così, le banche sono nazionali alla caccia degli accumuli dei risparmi degli altri; così come gli impianti fiscali sono concorrenti alla caccia delle imprese degli altri e parlare di paradisi fiscali è un assurdo dal punto di vista normativo.
Alla fine il Mes, più o meno light, sarà l’unica via ammissibile perché partecipe di un insieme di strumenti finanziari europei che simul stabunt, simul cadent. Un Mes solo sanitario senza condizioni ed interessi che potrà giustificare al massimo pezze d’appoggio da 5 o 10 miliardi, (3 specifiche per il coronavirus), finirà per travalicarsi in quello standard nell’utilizzo ulteriore di centinaia di miliardi per tenere a fatica un paese in piedi che vede e vedrà il tracollo del suo Pil e l’aggravamento del suo debito. Questa prospettiva, aldilà delle rodomontate, spinge i nostri partiti a non seguire l’iter trasparente che dovrebbe dare al Governo un mandato chiaro da portare nel Consiglio Europeo. La maggioranza non è coesa, i 5s non vogliono approvare il Mes in qualunque forma mentre il Pd e Renzi lo vogliono assieme al contraddittorio premier che, malgrado le alte parole definitive di rifiuto al Mes, non è in linea con il partito cui è (relativamente) più vicino. Neanche le destre, però ed i 5s, vogliono trovarsi senza i fondi necessari alla ripartenza. I primi 400 miliardi annunciati ma non pervenuti ancora a destinazione, sono già frutto dell’allargamento delle regole europee di salvaguardia della comune valuta. Ne saranno necessari 4 volte tanto e nessun partito vorrà essere ricordato come quello che ha strangolato il paese per carenza di fondi.
Se il Parlamento dovesse votare un mandato stringente al Premier, lo vincolerebbe al rifiuto del compromesso salutato dal ministro dell’economia come un grande successo all’ultimo Eurofin. Voterebbero contro le destre ed i 5s, a favore Pd per pregiudizio filoeuropeo, Iv e Fi per realismo. Nessuno però vuole vincolare Conte impedendogli il solito umido serpenteggiare tra le contraddizioni, che in sede europea vedrà l’assenso ad una cosa rifiutata dai più in patria. Non è la prima volta. L’entrata nella Grande Guerra non venne mai votata, al contrario della Germania, proprio perché la maggioranza di italiani e parlamentari erano contrari. Anche l’ultimo grande armistizio, l’assenso ai nuovi confini tedeschi e jugoslavi, e le guerre che ne derivarono, fino all’ultima libica, non vennero votati. Ogni volta, cosa fatta capo ha. Il peso dell’urgenza degli sviluppi internazionali, da tradursi nell’impellenza dell’attuazione degli accordi tra paesi maggiori, ha sempre travolto il nostro parlamento. Controprova, l’unica volta che l’Italia tenne duro con le Mani Nette, non riconoscendo gli accordi a lei sfavorevoli dopo la Grande Guerra, non solo non ottenne nulla ma creò le condizioni per il tracollo del suo sistema politico vigente.
Non si chiarirà mai dunque, anche dopo le decisioni prese, chi ne sarà o meno responsabile, ma si resterà impastati nelle polemiche. Il problema del Mes in Europa viene da lontano. Gli ultimi dieci anni hanno manifestato il peso abnorme della finanza, il rifiuto e l’impossibilità di controllarla da parte della politica occidentale a prescindere delle già sofferte conseguenze del suo tracollo. L’Europa che non ha a disposizione una valuta dal valore infinito al contrario degli Usa e che mantiene ancora un minimo predominio di politica sulla finanza, avrebbe dovuto ingaggiare un serio scontro con New York per una regolazione almeno occidentale dell’anarchico e tremendo potere finanziario, approfittando dell’uso americano della Bce di Draghi. Invece ha perso uno dei suoi pezzi più importanti passato all’altra parte e si è chiusa a riccio nel suo core, la Framania, come a difesa dal bombardamento continuo della finanza d’oltremare. Ovvio che si vogliano regole marziali mentre gli altri bombardano a tappeto.
Le conseguenze sull’angolo italiano, in 10 anni, sono state una schiera di tecnici, premier improvvisati non eletti, spaccature indotte della rappresentanza popolare, una serie di trucchi per garantire agli europeisti ad oltranza posizioni apicali. Anche i loro avversari, nichilisticamente antieuropei, agiscono sullo stesso verso, senza incidere sul dialogo diplomatico, non un dibattito interno, cui si riduce la politica europea. Nel decennio precedente la politica italiana era stata invece capace di ribattere sui conti europei, al tempo della crisi tedesca, ricordando che l’introduzione malfatta dell’euro non era un fatto economico ma parte del patto politico con il quale Berlino aveva riottenuto l’unità. Quando arrivò lo tsunami Usa, l’eurointervento ammutolì la nostra voce indipendente, rivelandosi decisivo nella nostra guerra civile, tutto a nostro discapito. Gli indignati dopo 20 anni si sono rivelati per improvvisati dilettanti; gli europeisti a rimorchio; non resta che tornare al decennio precedente, e puntare sul merito delle questioni senza trovarsi sempre di fronte a bozze preparate avverse. Prima dei prestiti si possono rivedere le spese superflue, dalle partecipazioni militari a quelle delle organizzazioni internazionali, dal ritiro dai programmi fino a moratorie su multe europee e tanto altro, Il vento del bellum civile purtroppo non si affievolisce nemmeno di fronte alla tragedia virale come è evidente dall’avvio di una scabrosa polemica contraria alla Lombardia ancora impegnata nella più grave epidemia che percorra il Paese, miserevolmente già accompagnata dall’arma giudiziaria. Eppure l’Italia ha bisogno di muoversi unita, con uno sguardo oggettivo sulla sua condizione, che non è destinata a cambiare a breve, e di come ci si è arrivati. Uno sguardo d’insieme che più che contestare o meno il Mes, deve rivedere l’intero piano economico europeo, a partire dagli aiuti di stato, la cui moratoria attuale dovrebbe stabilizzarsi almeno sul medio periodo. Al contrario di quanto si creda, il momento è il più opportuno, ora che i 5s hanno perso il loro motivo di essere e che lo stesso Pd, senza l’antiberlusconismo, è solo una sbiadita formazione centrista; le destre devono tornare al merito delle cose puntando sull’esempio delle regioni da loro governate. L’antieuropeismo di maniera ne sottrae l’impegno dove conta, cancellare gli effetti dell’ultimo disastroso decennio.
Studi tra Bologna, Firenze e Mosca. Già attore negli ’80, giornalista dal 1990, blogger dal 2005. Consulente UE dal 1997. Sindacalista della comunicazione, già membro della commissione sociale Ces e del tavolo Cultura Digitale dell’Agid. Creatore della newsletter Contratt@innovazione dal 2010. Direttore di varie testate cartacee e on line politiche e sindacali. Ha scritto Former Russians (in russo), Letture Nansen di San Pietroburgo 2008, Dal telelavoro al Lavoro mobile, Uil 2011, Digital RenzAkt, Leolibri 2016, Renzaurazione 2018, Smartati, Goware 2020,Covid e angoscia, Solfanelli 2021.