Deriviamo dai derivati

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La letteratura non è stata severa sulla finanza. Migliaia di volumi ne spiegano compilativamente i fondamenti; altre centinaia si impegnano a farne apprendere i meccanismi professionali, qualche decina ammiccano sul fato che sia solo fortuito caso. Sono uscite  molte storie con accenti più o meno romantici su banche illustri o sulle gesta del risparmio di comunità locali. L’acme è stato sicuramente la famosa educazione finanziaria, genere di successo alla fine del primo decennio del nuovo millennio sull’onda della moda del rating, proposto all’inclita cittadinanza con il retrogusto della connessa responsabilizzazione tesa a scaricarle addosso le conseguenze delle scelte unilaterali degli istituti finanziari. Ci sono certamente stati anche titoli severi, a cominciare da Zola, che hanno ritratto i finanzieri come diavoli e bugiardi.

Tutto ciò è ben poco, però, rispetto alla violenza senza pietà che il cinema ha espresso sull’argomento. Che siano i Gekko di Wall Street (‘87), i vampiri di 1 km da Wall Street (’00) e di Margin Call (‘11), Il Lupo di Wall Street (‘13) non c’è broker, finanziere, banchiere, speculatore, valutatore ed esperto di settore che non guadagni a palate all’istante, sniffi coca, vada a puttane, rivenda imprese spezzettate, inventi e rifili titoli spazzatura al mercato con lo sguardo fisso su grandi e piccoli schermi, tablet e cellulari (a seconda delle epoche) e mai all’anima. All’obiezione che si tratti di tutti titoli fantasy, il cinema non ha esitato a passare al documentario romanzato che si è accanito su casi specifici come il crollo della Enron (‘05) ed i sospetti sulla Goldman Sachs (’12), la banca con il doppio di liquidità della Francia. Ed ha proseguito scolasticamente con forme di edutainment, in cui cast famosissimi hanno sviscerato le malvagità finanziarie di Inside Job (‘10), Too Big to Fail (‘11) e The Big Short (’15), addirittura mettendo in scena tutti gli elementi di un processo che in realtà non si è tenuto mai (Cleveland Versus Wall Street, ‘10). A ben pensarci ci sono solo due finanziari buoni, i protagonisti di Una poltrona per due (’83) che sono tali solo perché massacrano due vecchi Uncle Scrooge, fondatori della Borsa.  

Nessuno è stato mai maltrattato mediaticamente come la finanza; nemmeno i gangster locali o importati, i pistoleri assassini e la mitica Mano nera in salsa italiana ed irlandese. Forse solo l’industria del tabacco è stata ingiuriata così, ma certo non per ben quarant’anni. La settima arte non ha atteso né la bolla del 2000 né il crollo del 2008 per giudicare; lo aveva fatto già dal crollo dell’87, primo giorno nero dal ‘29. La condanna riguarda i presidenti Usa e lo spettacolare sviluppo basato sull’esponenziale crescita borsistica di un’economia di carta o per meglio dire di schiuma saponata. Trattasi di condanna bipartisan delle presidenze repubblicane e democratiche, da Reagan in poi; e meno male che non vi viene inserito Nixon che nel ’74 impose la moneta governata in casa come la valuta mondiale. La schiuma saponata fu l’orgiastica moltiplicazione monetaria e di borsa che garantì agli Usa la forza economica per schiantare i sovietici e farsi superpoliziotto mondiale; per portare il suo mercato ad una domanda infinita utile all’offerta produttiva del mezzo mondo storicamente emergente, fin là stitico e per promettere tutto a tutti.

La finanza da un secolo a questa parte è quel che fu due secoli fa la corsa all’oro. Una corsa che prometteva moltissimo e talvolta lo diede; che illuse milioni di persone, creò e distrusse tante ricchezze. La corsa fu milioni di scalate, di cadute, di fratture, di stiramenti  e morti, non solo naturali. La moderna corsa all’oro è ancora più pericolosa, poiché fondata sulle scommesse ed il caso, che come l’acqua bollente gonfia bolle destinate a scoppiare tra l’evaporare di ricchezze. Non se ne può fare a meno ma ogni suo rallentamento fa tremare politicamente. Quasi un secolo fa l’esplosione della bolla finanziaria produsse una depressione tale da condurre alla guerra mondiale. L’odio per la finanza si concretizzò per la caccia ai suoi uomini, i signori del danaro, rei di affamare i popoli e si sposò naturalmente con l’antisemitismo, essendo nell’immaginario collettivo, gli ebrei detentori del potere della moneta. Oggi è facile cercare un nuovo grande corruttore finanziario come fece Steinbeck ai tempi della Grande Depressione. Si è infatti consolidata oggi una grande opinione generale che vede la finanza ome pura criminalità.

I numeri ci richiamano alla realtà. L’umanità produce un Pil di ca. $85 migliaia di miliardi (dati ‘19) con il lavoro di 3 miliardi e 415 milioni di occupati (sopra i 15 anni). Lavoro e produzione che risulterebbero schiacciati dal debito globale, 230% del prodotto interno degli Stati di cui il debito pubblico è l’83%. Pil e debito fortunatamente contano in realtà ben poco e non per le bizzarre ricerche di altri indici, dal Pil ambientale al culturale o animalista. Gli investimenti infatti li fanno le attività finanziarie mondiali, che possono contare su una ricchezza 15 volte superiore al capitale reale. Un lustro fa il FMI dava il rapporto a 13 volte; per World Bank e BRI nell’07 era di $993mila miliardi (finanza) a $75mila miliardi (Pil). I Pil cambiano di pochi punti ma i derivati crescono a decine. Non è un caso se la regolamentazione pretesa dopo l’08 non ci sia mai stata. La finanza regolata, quella buona (azioni e obbligazioni), vale un terzo della torta. I famigerati prodotti finanziari derivati (le scommesse, ma non lotterie) poco meno del 70% (dati ’13). I derivati, lungi da essere tossine, sono la sostanza del sistema; gli investimenti che hanno portato la ricchezza del mondo oltre il milione di miliardi; che corrono incontro al secondo. Messa così, non si capisce cosa se ne facciano i 74 milioni di miliardari e milionari, l’1% più ricco che detiene più del doppio della ricchezza degli altri 6,9 miliardi di persone, dei vari Pil e debiti pubblici. Cercano investimenti a fare, a capite di ciascun lavoratore, per i ca. $290mila rimasti nel circuito finanziario. Qualcuno in queste cifre ha ritrovato la famosa critica marxiana della crisi di sovrapproduzione. Qualcun altro ci trova l’inutilità del lavoro e del merito che alla fine della fiera contano meno del 10% del danaro teorico in circolazione. Se è così, successi e carriere sembrano sono casualità. La loro inutilità adombra le strutture intermedie, penalizza la politica, le rappresentanze, financo gli Stati destinati forse ad essere sostituiti da supermultinazionali e da istituzioni globali finanziarie, come ci ha raccontato la fantascienza.

Finora il punto di equilibrio è stata l’America. L’America della valuta mondiale, dei giudici del rating di ogni cosa ci sia al mondo, delle invenzioni finanziarie, del governo di Internet, dei social e del vasto mercato digitale dove si sviluppano le monete elettroniche del futuro. Nella sua politica si incontrano e governano le lobby finanziarie legate ad ogni settore, anche alla finanza pura. Se le istituzioni americane derivassero e divenissero delle s.p.a. sposando democrazia economica e politica, tutti gli altri protesterebbero ma non potrebbero farci niente e dopo le copierebbero. E’ evidente che le urgenze dettate al mondo, dall’estinzione del pinguino al riconoscimento facciale, hanno solo significato politico e non economico   poiché la finanza investe per investire, senza un scopo morale. La programmazione, identificata nei sistemi socialisti, è insita anche nella finanza. Finora ha sempre cercato il consenso o la suasion e lo ha trovato nell’offerta delle innovazioni distribuite, degli stili di vita digitali e non, dell’esplosione dei prodotti mediatici tesi a diletto e cultura.

La finanza è la leva di questo consenso. Se film e social la odiano, lei finanzia anche l’odio. Tutto perché la giostra non si fermi, la panna non smetta di montare. Oramai non possiamo né scendere, né smontare. Non si tratta di difendersi ma di partecipare.

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