“Covid uguale infortunio sul lavoro. Una norma pericolosa, scritta male e ispirata da un pregiudizio anti-impresa”. Vi invito a leggere l’editoriale di Antonio Gozzi, uno dei firmatari del nostro appello #RICOSTRUIRE, pubblicato su PiazzaLevante.it L’equiparazione tra contagio da CoViD ed infortunio sul lavoro fatta dall’art.42 del cosiddetto ‘Cura Italia’ (primo della lunga lista dei decreti emanati dal Governo nel periodo della pandemia) preoccupa enormemente gli imprenditori italiani. C’è il rischio forte che, a causa di una norma mal scritta, nel caso di un dipendente positivo l’imprenditore sia coinvolto sul piano penale per gli eventuali reati di lesioni o, in caso di decesso, di omicidio colposo. Tutte le categorie datoriali, da Confindustria in giù, hanno vivamente protestato ed espresso forte preoccupazione, ma finora, a parte generiche rassicurazioni del Ministro del Lavoro del M5S, Nunzia Catalfo, e una lettera ai giornali del presidente dell’INAIL, nulla di sostanziale è avvenuto.
La tesi del Ministro e dell’INAIL è che la responsabilità scatterebbe solo in caso di “dolo o colpa grave” dell’imprenditore nel non rispetto delle norme e dei protocolli di protezione sul luogo di lavoro. Ma è evidente che una legge non si cambia con generiche dichiarazioni o con una letterina ai giornali; e quindi l’inquietudine resta, considerate anche le prime reazioni interpretative di alcune Procure della Repubblica. La vicenda segnala ancora una volta come vi sia un sistematico pregiudizio nei confronti delle imprese e degli imprenditori che, contrariamente ai principi dello stato di diritto e della Costituzione, per i quali tutti i cittadini sono innocenti fino a prova contraria, sono invece considerati sempre presunti colpevoli.
È la filosofia di Davigo: non ci sono innocenti in giro ma solo colpevoli che per ora l’hanno fatta franca. Anche in una situazione come quella del Coronavirus, nella quale le responsabilità sono obiettivamente molto difficili da accertare, si pensa bene, per non sbagliare, di sparare sul manovratore. Come si può presumere che il contagio sia effettivamente avvenuto sul luogo di lavoro considerati il lungo periodo di incubazione del virus, il molto tempo giornaliero passato dal potenziale infetto fuori dal posto di lavoro in famiglia o altrove, l’impossibilità materiale di avere certezze sul luogo e sulla causa di infezione? Richiamare a proposito del Covid-19 la normativa sugli infortuni sul lavoro non ha alcun senso. Nell’infortunio sul lavoro vi è un nesso causale, più o meno chiaro, tra presenza del lavoratore nel luogo di lavoro e infortunio. Ma nel caso del Covid come si fa a stabilire questo nesso? La norma in vigore ribalta l’onere della prova, scaricando sull’imprenditore il compito di dimostrare che ha fatto tutto quello che poteva per evitare il contagio, partendo però da una presunzione di colpevolezza. Non sei tu che devi dimostrare che sono colpevole, sono io che devo dimostrare di essere innocente.
Intendiamoci: le imprese devono assolutamente adempiere a tutti i protocolli di sicurezza, e lo stanno facendo, nella stragrande maggioranza dei casi, attuando scrupolosamente quanto concordato con Governo e sindacati. Le imprese industriali, specie quelle di dimensioni medie e grandi, sono facilitate nell’attività di protezione e prevenzione dalla loro forza e struttura organizzativa, che fa sì che vi siano pochissime segnalazioni di contagio in ambiente industriale. Ma le piccole imprese industriali, come pure gli esercizi commerciali, i ristoranti, i bar, i barbieri, i centri estetici, le palestre ecc. sono in maggiore difficoltà per le tipologie di attività svolte e per i ridotti spazi disponibili. L’idea che basti un magistrato più livoroso del consueto o un funzionario/ispettore alla ricerca di deresponsabilizzazione per far partire un avviso di garanzia non fa dormire la notte. Sempre più spesso infatti le normative sugli appalti o le regole per l’accesso al credito, anche qui violando il principio costituzionale, mettono nella black list imprenditori non definitivamente condannati con sentenza passata in giudicato, ma semplicemente indagati o rinviati a giudizio. E ciò con ricadute spesso irreparabili sulle imprese e sui loro lavoratori.
Bisogna cambiare la norma di legge riportandola nel solco del buon senso e dei principi costituzionali. Ma per fare ciò bisogna sconfiggere il giustizialismo populista proprio di frange estreme della sinistra e del sindacato e interpretato anche al governo da taluni esponenti del M5S a partire dallo stesso Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Una visione animata dal pregiudizio anti-impresa che genera l’inversione dell’onore della prova e che individua gli imprenditori come sempre e comunque colpevoli. Un’impostazione politica ed una visione destinate a creare enormi difficoltà all’economia ed alla sua ripresa in un momento che per l’Italia è difficilissimo. Tale visione è minoritaria nel Paese, e può essere battuta nelle aule parlamentari declinando i principi dello stato di diritto, della civiltà giuridica, di una giustizia giusta. Basta volerlo ed avere coraggio perché, come diceva l’indimenticato Massimo Bordin, sui principi bisogna tenere duro, e non vi è convenienza politica che tenga.
Stefano Parisi
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