Stuntman buoni e cattivi

Cultura e spettacolo RomaPost

C’è stato un vero stuntman cattivo. E’ quello che guida l’auto ipercarozzata A prova di morte, che è anche uno dei due titoli, firmato da Tarantino, del film Grindhouse. Il movie, del 2007, fu un flop negli Usa pur essendo arrivato in corsa a Cannes. Resta in effetti una falla nella carriera del regista, preceduta e seguita da grandi successi. Malgrado all’epoca non se ne fosse detto fiero, ora il nostro italoirlandese è tornato sull’opera lamentandone la mancata comprensione. Kurt Russell, l’anzianotto stuntman cattivo, è il protagonista maschile attorniato da due distinti ginecei. Più nello spirito dell’horror omicida maniacale, nella prima parte fa fuori un gruppo di ragazze dopo averne goduto il ballo sensuale; nella seconda, non essendo riuscito ad investire l’altro gruppo femminile, viene fatto fuori con altrettanta violenza dalle tre sopravissute. Vero sito di spezzettamento e molatura, Grindhouse si fonda sui movimenti violenti e spericolati dei corpi e delle auto, nelle corse e nei voli e spericolatezze delle arti marziali, dell’exploitation, genere poi completamente assorbito dai games per poi tornare più forte che mai nei movies.

Il rito finale femminile del massacro del bad one, sembrerebbe un corretto happy end, ma c’è un però.  Le ragazze oche e carine (la più sciocchina Pam, poi Arlene, la selvaggia ballerina da lap, Shanna e Julia) finiscono tutte male mentre sono le mascoline ed armate Abernathy, Kim e Zoë a vendicare un non gentil sesso ed a consegnare loro stesse la femminile Lee allo stupro di un buzzurro contadino. La violenza è violenza, da premiare in qualunque caso, ma se c’è da scagionare qualcuno, come lo stuntman alla fine del primo episodio, il barista, non a caso interpretato dallo stesso regista, sa chi scegliere. Nel Tarantino original le donne, fintanto che sono normali, cioè nell’accezione cinematografica belle, fanno sempre una brutta fine, umiliate, drogate, sepolte vive, uccise. Si salvano quelle che sembrano meno donne con tanto di superpoteri.

La stessa Thurman durante le riprese di Kill Bill, fu buttata a rotta di collo ed a rischio mortale alla guida di una veloce macchina mal funzionante; la ripresa fu eccellente, ma se si fosse fatta male, sarebbe stata forse anche migliore.

Dodici anni dopo, è la volta di un altro stuntman, questa volta buono. Il suo ruolo è subito cancellato o meglio fuso dalla presenza, prepotenza ed essenza dell’attore che lo impersona, Pitt. Once Upon a Time… in Hollywood è sì 2 ore di tarantinesco fumettone fotoromanzo Lanciostory, ma ricorda più le pagine pubblicitarie di frammezzo che quelle della fotostoria. Non ci si scorda mai chi siano i virtuosi e gigioni Pitt, Di Caprio, Al Pacino che fanno vision a prescindere dal prodotto, clip pubblicitario, documentario di costume. La storia conta poco tanto che è lo stuntman non protagonista Pitt a vincere anche l’Oscar. Tanti i riferimenti anastatici accurati da Cielo Drive 10050, abitazione del regista Polansky, della moglie incinta, la star Tate, quella di Rosemary’s baby ed anche del figlio di Doris Day all’ex Spahn Ranch cinematografico, andato distrutto nel ’70 e ricostruito per l’occasione, sede della setta freak Manson family; dalle feste stellari attorno alla piscina della Playboy Mansion con McQueen ai lavori del set fino alle strade di Los Angeles dominate dai manifesti giganti di Ringo spaghetti western. Tanto preciso da non inquadrare l’epoca che negli Usa già da anni odiava la guerra in Vietnam ed i bianchi biondi pettoruti Pitt Captain America. L’epoca era quella della California Hush hush dello scrittore Ellroy che da tempo vomitava sui Beach Boys.

La meraviglia, l’eccitazione della hippie a piedi nudi, l’ammirazione, riportate nel film, non sono dell’epoca, ma odierne e fondalmentalmente trumpiane. Trumpiani i 6 minuti finali nei quali l’achilleo stunt Pittnel quale capitana altri buoni, bianchi e ricchi a bruciare, tagliare, sparare, affogare, far mordere ed uccidere l’hippie guru terrorista Manson assieme al suo commando con un vero orgasmo di happy end. Tate è salva, mondo il sito del massacro, ripulito l’inconscio dell’ancora perseguitato polacco, annullati gli anni di prigione dove  recentemente è morto Manson. Come nei Bastardi, il pensiero è potere e se vuoi uccidere Hitler, lo uccidi. Come Saddam, Milosevic, Gheddafi, quella è la fine del cattivo. Si attende nel next movie, la morte di Assad o l’omicidio di Khomeini, sempre con Captain Pitt. Triumpianissima l’irruzione al Manson corral, dove lo stunt buono sganassa i freak facendosi bello agli occhi delle freak e spernacchiando l’Helter skelter dei Beatles inno dei satanisti giunti in terra per tutti noi. E finalmente ipertriumpiana e scandalosa è la bella, umiliante, definitiva e totale ripassata che Pitt si permette di dare al mito orientale del kung fu Bruce Lee. Sua figlia Shannon, presidente dell’immancabile fondazione,  se ne è scandalizzata assieme a tutti i fan. Tarantino, senza una piega, ha confermato l’attendibilità della scena (mi sono documentato, il ritratto è plausibile). Insomma tutte le piroette, che hanno dato corpo ai Matrix e pugnali volanti ed ad un numerosissimo seguito, sarebbero fuffa. E tanti saluti all’adorazione per l’oriente di Kill Bill.

Lo stuntman cattivo era il trionfo della violenza, che l’inerme pubblico ama guardare al sicuro.  Cosa è allora lo stuntman buono? E’ quello che stende i cattivi a suon di pugni, che fa fuori nomadi, freak, terroristi, rapinatori, cinesi. Scomparsi gli eroi neri degli anni obamiani, camaleontico, Tarantino assume i colori del pubblico che è sempre più di serie b, come i film cui l’ha abituato. I caratteri però non sono più fumettosamente bidimensionali come prima, assurdi beckettiani, volgari, cinici, improbabili. Seguono grandi manifesti di celebrità che indicano concreti desideri. Un po’ trumpiani, un po’ opposti alla me-too. Il regista è passato da un primo se c‘ero dormivo alla finale richiesta di perdono per non essere intervenuto, con tutte le smorfie possibili di vergogna e commozione rese possibili dalla sua faccia alla Frankestein. Ha scelto prudentemente i britannici produttori di Potter per quest’ultima opera scaricando quelli storici, Bender (a cominciare dal primo Reservoir dogs che non si capisce perché sia divenuto in italiano Le iene) e quel cattivone di Weinstein per il quale la giustizia ha già calato una prima scure tra le danze felici delle sue ex attrici.. E’ corso a consegnare alla Thurman a lunghi anni i video incriminanti il mezzo tentativo di femminicidio.

Un Quentin più misogino non maltratta più le belle ragazze, anzi le salva ma cancellandone nel mito unifome anima e volto, sostituiti dai piedi. Questo Tarantino un po’ represso rischia di cadere involontariamente nel machismo del Querelle di Fassbinder che Pitt inesorabilmente ricorda, salvandosi solo grazie alla gomma da masticare. Lungi da compendiare la precedente produzione tarantinesca C’era una volta segna la fine dell’innocenza per il regista, fattosi sistema dell’epoca. E dei poteri buoni.

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