Veneziani “Cosa si festeggia il 2 giugno? Il 3 giugno”

Attualità

Non fiori né opere di bene per la festa della Repubblica italiana. All’opposizione sono stati negati i fiori sull’Altare della Patria, agli italiani sono negate o tardate le opere di bene. Galleggiamo da mesi in una lunga e sfiorita anticamera, nell’attesa generale di fondi europei e nell’attesa particolare di aiuti per le singole imprese, famiglie e attività. Il 2 giugno ha in serbo solo una radiosa promessa per il domani: l’indomani, 3 giugno, tana libera tutti. Liberi, seppure con la condizionale, e forzosamente autarchici perché siamo ancora costretti nei nostri confini nazionali, respinti dal mondo, dai tedeschi ai greci. Mai accaduto, il peggior momento della repubblica italiana, interno ed esterno. La bandiera si è ridotta a una mascherina tricolore per un micropatriottismo sanitario, in cui ai fratelli d’Italia è vietato “stringersi a coorte”. Ma visto che siamo alla sua festa di compleanno per i 74 anni, proviamo a chiederci: in che repubblica siamo, la seconda, la terza, la farsa? La mia idea è che non siamo mai usciti dalla prima repubblica, viviamo solo un nuovo stadio dissolutivo della stessa. Lo dico per almeno tre ragioni. Uno, la formula politica su cui regge la nostra repubblica è rimasta la stessa, siamo ancora in una repubblica parlamentare e non siamo mai passati a una repubblica presidenziale, federale o altro. Tradita, degenerata ma parlamentare. Vani tentativi, piccoli aborti, leggi elettorali a raffica e su misura per chi governa, ma nessun sostanziale passaggio da una forma repubblicana a un’altra. Fallì pure il tentativo renziano di “abolire” il senato e il bicameralismo perfetto. Siamo dove eravamo, solo più sfasciati.

Due, nessuno ha avuto il coraggio e i numeri per modificare la Costituzione, riscrivere i suoi passi alla luce delle esigenze mutate e dei cambiamenti d’epoca; non sono nemmeno cadute le grottesche “norme transitorie”, non è stato rivisto il presupposto ideologico e storico della Carta, legato all’esperienza della guerra e del fascismo. Sarebbe giusto, dopo 74 anni, scrivere che la repubblica ripudia non solo il fascismo ma ogni dittatura e ogni totalitarismo e ribadire il primato sovrano degli interessi generali, popolari e nazionali, sul predominio della tecnica e della finanza. Tre, è rimasto invariato il suo peccato originale: i partiti non furono dentro la repubblica, ma la repubblica fu sin dall’inizio dentro il sistema dei partiti che allora si chiamava Cln. Avemmo sin da allora la partitocrazia come recinto e orizzonte della democrazia, e tale è rimasta dopo tanti scossoni; sono i partiti, i loro capi e le bande a loro collegate che via via li occupano: non solo i poteri politici ma tutto il resto, perfino la comunicazione (vedi la Rai). È ancora la Cupola dei partiti a nominare, a rimuovere, decidere in tutti i campi in base ai propri interessi, scegliendo il personale di servizio. La meritocrazia è solo una vecchia battuta, e non fa ridere. Dunque, siamo ancora nella fase dissolutiva della prima repubblica. E che di un processo dissolutivo si tratti, lo testimonia drammaticamente la divisione dei poteri saltata, l’invasione di campo della magistratura, il suo imbastardimento e la sua politicizzazione, il suo protagonismo e il conflitto a fuoco con gli altri poteri o tra bande di magistrati. Non siamo entrati nella seconda repubblica giudiziaria, ma siamo dentro la guerra civile dei poteri, fino alla nascita di associazioni di stampo mafioso nel cuore degli stessi poteri. Non siamo dunque passati alla seconda o alla terza repubblica, siamo semmai degradati nel seminterrato, al piano meno uno, meno due della Repubblica.

L’unica grande novità degli ultimi decenni è che sono scomparsi i partiti storici che l’avevano costituita, le loro ideologie e la loro presenza territoriale. La Dc, il Pci, il Psi, il Msi, il Psdi, il Pri, il Pli. C’è chi mostra legami con i partiti e gli schieramenti di quel tempo, come il Pd, LeU e Fratelli d’Italia, derivati dal Pci-Margherita e dal Msi-An, discendenti dai rispettivi ceppi storici della sinistra o della destra nazionale e sociale. Le altre formazioni presenti, pur rivendicando alcune eredità, appartengono alla storia più recente dei partiti personali – Berlusconi, Renzi, Grillo, Di Pietro, Bonino/Pannella, forse Conte – o territoriali, come fu la Lega Nord. Quando si formò il governo grillino-leghista si pensò che fossimo passati dalla democrazia delegata e parlamentare a una forma ibrida di democrazia diretta, populista e trasversale, che liquidava definitivamente gli steccati tra destra e sinistra. Ma l’intesa finì presto e non produsse cambiamenti strutturali che potessero davvero indicare un cambio di repubblica. Le due vecchie carcasse di destra e sinistra o le loro protesi correttive, di centro-destra, centro-sinistra o grillo-sinistra, ripresero il sopravvento o ricrebbero nel vuoto. Nell’arco di questa legislatura si è mostrata pure l’inconsistenza del populismo; lasciato a se stesso, è un vago umore, un sentimento di rivolta e di opposizione. Ma poi, per governare, si deve unire ad altro che le dia sostanza, qualità, strategia e destinazione: per esempio una linea di sovranità o di subordinazione ai poteri internazionali. Il populismo vale come sfogo, disagio, voglia di mutamento; ma non ha poi le classi dirigenti, le capacità e le competenze per potersi trasformare da pura protesta in governo in guida del Paese. Il populismo è la fase puerile della politica, quando è ancora confusa con l’antipolitica e non distingue tra slogan e progetti, tra desideri e realtà. Quando va al potere, il populismo grezzo lascia il campo agli improvvisatori, ai trasformisti, ai venditori ambulanti di se stessi o di piccoli gruppi e sette; o si consegna alle vecchie cricche, le vecchie cupole di potere. Cosa festeggiamo dunque questo due giugno, se non il tre giugno, cioè il giorno in cui riavremo un po’ di libertà? Una prospettiva di corto respiro, una falena. Se questa è una repubblica, Viva il Re.

Marcello Veneziani

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