I social si riempiono di quadrati neri e, anche da noi, #blacklivesmatter diventa trend perché “è la cosa giusta da fare”. In realtà dietro questa nuova ondata di proteste c’è moltissima politica, le elezioni presidenziali di novembre e un fenomeno pochissimo compreso qui in Italia: l’abbandono, da parte della sinistra, delle tradizionali posizioni di difesa della working class e dei poveri in nome di una visione identitaria della società. Reddito, ceto, posizione sociale non contano più, sostituiti dal colore della pelle. Il disoccupato bianco in un paesino del Nord Dakota diventa così un “privilegiato” rispetto al milionario di colore che magari, ben protetto nella sua villa di Beverly Hills o dal suo loft di Midtown, twitta di come i saccheggi siano “la giusta reazione” al “razzismo sistemico della società americana”. Per prima cosa chiediamoci: è veramente così? Tutto è cominciato a Minneapolis con quel ginocchio schiacciato sul collo di George Floyd: “I can’t breathe”. Chiara prova della perdurante brutalità della polizia nei confronti dei cittadini neri. “In America essere neri è ancora un crimine”.
Bene, guardatevi questo video, oppure cercate su internet il nome di Daniel Shaver. Shaver si trovava in un albergo per lavoro. Qualcuno lo nota mentre mostra un fucile air gun (cioè un giocattolo) ad alcuni colleghi e chiama la polizia che interviene in forze. La scena viene ripresa dalla bodycam di uno degli agenti. Shaver è in ginocchio in fondo al corridoio. Gli agenti, con i mitra spianati, gli danno comandi imperiosi e, a volte, contraddittori. “Non abbassare le mani” e poi “cammina a quattro zampe verso di me”… Quando Shaver non capisce, l’agente urla: “Un altro errore e ti spariamo”. Shaver è terrorizzato. “Vi prego non mi sparate” balbetta, piangendo. Mentre si avvicina, quasi strisciando lungo il corridoio, verso gli agenti commette effettivamente un’altro errore. Sposta indietro la mano, forse un riflesso perché gli stanno cadendo i pantaloni. Un’agente fa fuoco. Una smitragliata a distanza ravvicinata, dall’alto verso il basso, e il corpo di Shaver, già carponi, si affloscia al suolo senza vita. Ora avete mai sentito parlare di questo ennesimo caso di civile disarmato (e del tutto innocente) ucciso dalla polizia? Vi ricordate manifestazioni, veglie, appelli accorati delle star? Ho omesso naturalmente un particolare che, evidentemente, è decisivo: Shaver era bianco.
E intendiamoci, non è che ci sia stata alcun tipo di censura. Le immagini della morte di Shaver sono state riportate sui mass media americani e anche gli organizzatori di Black Lives Matter hanno subito denunciato l’accaduto come esempio della brutalità della polizia. Ma è tutto finito lì. È mancata quella indignazione diffusa, quel rimandare ossessivamente le immagini tragiche degli ultimi momenti di vita di Shaver, padre di due bambini. Nessuna legacy, nessuna fondazione dedicata alla sua memoria, nessuna santificazione. È mancato in realtà tutto quel vasto network di giornalisti, influencer e attivisti che da anni ha sposato la causa della sinistra identitaria. Per loro la morte di Shaver non è funzionale ad una narrativa che vuole, a tutti i costi, drammatizzare la condizione degli afroamericani in America. Cosa è successo agli agenti che hanno “assassinato” Shaver? Al processo sono stati assolti. L’agente che ha fatto fuoco è stato messo in prepensionamento (a 2500 dollari al mese) per disordine post traumatico (cioè il senso di colpa per aver sparato a Shaver). Quindi da una parte abbiamo i 4 agenti che hanno preso in consegna George Floyd arrestati per direttissima tra procuratori e funzionari pubblici che rilanciano continuamente l’entità della pena per calmare un’opinione pubblica inferocita.
Stefano Varanelli (Blog Nicola Porro)
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