Il Covid-19 si è portato via, a settantacinque anni, uno dei maggiori pensatori italiani. Giulio Giorello era un filosofo che non si sottraeva alla vita sociale e raramente disdegnava un invito o declinava un’intervista. Era disponibile con tutti ed era disposto a confrontarsi su ogni tema: un po’ per innata curiosità intellettuale, un po’ perché credeva che la filosofia questo dovesse essere, cioè un punto di vista diverso da portare nella conversazione pubblica (aveva scritto persino un gustosissimo e istruttivo libro su La filosofia di Topolino con la sua allieva Ilaria Cozzaglio, Guanda 2013). Senza però, questa era la sua convinzione, minimamente fare sconti in rigore e scientificità; senza mai essere ovvio o banale, come ahimè sono tanti intellettuali à la page. E tutti coloro che entravano in contatto con lui apprezzavano questa sua profonda onestà intellettuale. Aveva una formazione filosofica molto diversa da quella classica italiana, di tipo empiristico-anglosassone e con non banali cognizioni di matematica e fisica, ma dialogava con tutti: un vero liberale in quanto convinto che solo dal confronto delle idee e delle argomentazioni, dei punti di vista diversi e anche opposti, potesse nascere qualcosa di utile per la conoscenza e per la società. Si è sempre tenuto lontano dalla politica e credo non amasse per nulla il dibattito pubblico italiano attuale: polemico lo era, anche tagliente, ma sempre con una finezza e una ironia tutta british. Era sempre pronto a citare aneddoti e autori poco conosciuti del passato inglese e soprattutto irlandese (l’Irlanda era la sua terra di elezione).
Nel dialogo poteva sembrare presente e assente contemporaneamente: non disdegnava il confronto con chiunque e su qualsiasi argomento, come ho detto, ma nel contempo conservava naturalmente un tratto aristocratico, esaltato dagli spessi occhiali da miope che gli coprivano buona parte del viso. Era sempre in giro per l’amata Italia e non era facile raggiungerlo, non avendo un buon rapporto con il telefonino (e in verità nemmeno con gli altri nuovi mezzi di comunicazione), almeno dopo la scomparsa dell’amata mamma, con cui viveva a Milano nella sua casa-biblioteca e che, a chi gli telefonava, elencava con puntigliosa dovizia di particolari tutti gli spostamenti di Giulio. Filosofo della scienza (classico il suo manuale di base pubblicato nel 1992 da Jaca Book), allievo e successore di Ludovico Geymonat sulla prima cattedra italiana della disciplina, era molto legato a Dario Antiseri, con il quale aveva contribuito ad introdurre in Italia Popper e gli epistemologi post-popperiani (a cominciare da quel Paul Feyerabend che amava particolarmente).
Con Antiseri aveva pubblicato per Bompiani, nel 2011, un bellissimo libro sula Libertà che è, come recita il sottotitolo, un vero e a tutti consigliabile “manifesto per credenti e non credenti” (né aveva esitato a scrivere una lunga e densa prefazione al libro che io e Antiseri pubblicammo nel 2011 per Rubbettino sui Liberali d’Italia). Era un razionalista critico, perciò. E un seguace dell’utilitarismo liberale nel solco della tradizione di John Stuart Mill, un altro dei suoi autori di riferimento, di cui aveva prefato più volte il classico pamphlet Sulla libertà. Nella sua idea di scienza, e di conoscenza, entravano a pieno titolo il dubbio, l’incertezza, l’imprevedibilità. Lo appassionava il calcolo delle probabilità e la teoria dei giochi (pubblicò nel 2008 per la Luiss con Simona Morini l’unica monografia italiana su Harsanyy, il premio Nobel che su quella teoria aveva costruito ardite ipotesi economiche). Era, al contrario di Antiseri, un anticlericale, e forse addirittura un ateo, sicuramente un laico, ma anche in questo caso nel senso anglosassone e non continentale del termine: la sua laicità non diventava cioè mai in lui intollerante. Il suo liberalismo era venato da un forte tratto di libertinismo, che in lui era soprattutto anarchismo epistemologico e libertà dalle gabbie mentali e dai dogmi (Lo spettro e il libertino era il titolo di uno dei suoi libri di esordio, pubblicato da Mondadori nel 1885) In un mondo di narcisi incapaci di autocritica, quelli per capirci che di fronte alle proprie scelte sanno solo dire che “rifarebbero tutto tale e quale”, era sicuramente fuori posto, un “inattuale”. Segnava però in questo modo con forza la sua diversità e la sua grandezza umana e intellettuale.
Blog Corrado Ocone
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