di Gianfranco Tomei – Docente di Psicologia presso La Sapienza Roma
Il percorso di Arnold Schwarzenegger si snoda nei decenni fra i ’60 e i 2000 fra più discipline, in un tracciato “mutante” che abbraccia sport, cinema e politica. Personaggio multimediale come pochi altri, Arnold ha saputo attraversare gli anni ’70 e ’80 come icona di un edonismo fortemente e spiccatamente fisico, imponendosi nel fitness come una Jane Fonda al maschile, proponendo al pubblico e sdoganando il mondo delle palestre, dei pesi e del sudore come qualcosa che, prima visto con sufficienza, stava diventando il nuovo passatempo cross-sociale. Abbracciando più classi sociali, dalla middle-class alle classi più povere, il bodybuilding, grazie alla figura carismatica del 7 volte Mister Olympia Schwarzenegger, acquistò negli anni ’80-’90 lo status di sport di massa. Fu emblematico in tal senso il documentario “PumpingIron” (in Italia “Uomo d’acciaio”) di George Butler e Robert Fiore, che descriveva la vittoria di Arnold all’Olympia del ’75, di fronte ad uno scombussolato Lou Ferrigno (futuro Hulk dell’omonimo serial), e andava a scavare nella sottocultura del culturismo californiano, che mano mano come una marea montante si andava imponendo anche fra i vip di Hollywood, e a cascata anche sul pubblico generalista.
Fisico possente come un Ercole o Maciste di fine secolo (Arnold tributa molta della sua ispirazione proprio allo Steve Reeves del grande schermo), Schwarzenegger proveniva da un oscuro paese austriaco, Thal in provincia di Graz. Mai in accordo col padre poliziotto, che vedeva per lui un futuro nelle forze dell’ordine o come taglialegna, dimostra subito una grande passione e forza di volontà negli sport, che pratica tutti con alterna fortuna, prima di scegliere la via del culturismo, dove si vedeva più dotato e dove diventa subito prima Mister Austria e poi Mister Europa.
Con questo passaporto approda a Los Angeles alla corte di JoeWeider, patron del body-building di quegli anni e possessore di diverse riviste del settore, che agevola le sue vittorie internazionali a partire da Mister Universo. Il dominio incontrastato di Arnold, dopo il tramonto dell’altro grande talento cubano Sergio Oliva, che fu uno dei pochi a batterlo sul palco, dura 6 anni. Nel ’75, dopo la vittoria all’Olympia e proprio a favore delle cineprese di “PumpingIron” annuncia il suo ritiro dalle competizioni, per dedicarsi all’altro suo grande sogno, fare l’attore su suolo americano, a Hollywood, dato che il personaggio non è tipo da sognare in piccolo. Dopo alterne fortune, e un Golden Globe come attore non-protagonista per il piccolo film “Stay Hungry”, ottiene il suo primo contratto importante nell’industria dell’intrattenimento con “Conan il barbaro”, personaggio dello scrittore texano Robert E. Howard che è tagliato su misura (extralarge) per lui. Durante la preparazione delle riprese, che tardavano a iniziare, fa di nuovo capolino all’Olympia del 1980, vincendolo fra mille polemiche, dato che non era considerato nella sua forma migliore e c’erano culturisti più giovani e affamati di lui. Ma tant’è, le amicizie nel settore sono importanti, e la giuria del body-building non ne è (forse) insensibile. Comunque è da qui che viene fuori il suo motto più famoso, quell’”I’ll be back!” (“Tornerò” nel doppiaggio italiano) che ripeterà spesso nei suoi fortunati film.
“Conan il barbaro” è un successo planetario, targato Dino De Laurentiis, e lancia Arnold nell’Olimpo delle star del cinema di quegli anni. Inizialmente il suo percorso di attore non era stato facile: i produttori criticavano il suo accento, giudicavano mostruoso il suo fisico, e poi erano i primi anni ’70, sullo schermo andavano per la maggiore personaggi schivi e tormentati: i Dustin Hoffman, il primo De Niro, Jack Nicholson, e il possente culturista austriaco era bollato senza tante storie come un velleitario senza troppe speranza. Ma di lì a poco stava cambiando il vento, prima la “Febbre del sabato sera” e “Stayingalive” con un atletico John Travolta, poi il primo “Rocky” di Sylvester Stallone, stavano affermando una recitazione più basata sulla fisicità e sul carisma corporeo. Ma era un momento di passaggio: questi personaggi, Tony Manero e Rocky, erano pur sempre figli degli anni ’70, erano workingclasshero, eroi della classe operaia impastati di sudore e venuti su da officine maleodoranti, che cercavano un loro posto nella ribalta glamour del mondo dello sport e dello spettacolo. Arnold rappresentò una evoluzione di questi stereotipi: corpo già “mutante”, si poneva come alieno alla rappresentazione socio-culturale di quegli anni. Era già un corpo da anni ’80, levigato dai pesi ma senza la percezione del sudore e della fatica. Ultracorpo al passo con i tempi, in più condito con un umorismo che mancava agli eroi cupi di Stallone e dei suoi epigoni, si ritagliò presto un ruolo di primo piano in fortissima empatia e divertimento con il pubblico. Divenne un beniamino delle platee di tutto il mondo con pellicole che imitavano i Rambi dell’epoca: “Commando”, “Codice Magnum”, anche film di buonissima fattura come “Predator” lo imposero come star del botteghino dagli incassi astronomici, e che non sbagliava un colpo. Trova anche il tempo di sposarsi con una discendente della casata dei Kennedy, Maria Shriver, e viene accolto alla Casa Bianca, George Bush Sr. lo elegge Ministro dello Sport.
Azzecca anche il suo secondo personaggio iconico, dopo Conan: con “Terminator” e più ancora “Terminator 2” diventa il silenzioso cyborg prima cattivo poi buono, che pronuncia poche parole ma che pesano oro. Il suo cachet raggiunge i 30 milioni di dollari a film, il più pagato fra gli attori hollywoodiani, non male per un ragazzo partito dall’Europa senza sapere una parola di inglese e con pochi dollari in tasca.
Dopo altri successi come “True Lies”, la commedia “I Gemelli” con uno scatenato Danny De Vito, in cui dimostra anche le sue doti comiche, un flop: l’ambizioso “Last actionhero” va male al botteghino, ma è solo un incidente di percorso.
Altri successi, “L’Eliminatore”, “Giorni contati”, “Danni collaterali”, ma gli anni ’80 e ’90 si vanno spegnendo. Viene operato al cuore, gli impiantano un bypass, i più maligni sostengono a causa dei suoi trascorsi sportivi conditi con doping e altra robaccia, ma lui, pur non rinnegando mai il doping utilizzato sotto gara, smentisce le insinuazioni attribuendo la patologia cardiaca ad una malfunzionamento genetico ereditario.
Dopo “Terminator 3” la sua ambizione gli fa affrontare, forte del successo personale e della popolarità, le elezioni a Governatore della California, stato che lo ha accolto “a braccia aperte” nella sua scalata al successo americano. Repubblicano convinto, pur sposato ad una democratica, vince il mandato per ben 2 volte, dal 2003 al 2010, improntando parte della sua azione di governo sulle emissioni verdi e sull’ecosostenibilità. Finito il suo mandato politico, dopo uno scandalo che lo vede legato ad una paternità illeggittima, torna al cinema, con la reunion dei “Mercenari” del suo prima rivale poi grande amico Stallone ed altre vecchie glorie degli anni ’80, che si rivela un successo e genera altri 2 seguiti.
I successivi 2 sequel di Terminator, Terminator 5 e 6 non vanno granché bene al botteghino, tranne in Cina, e ciò mette in forse i suoi progetti futuri nel mondo dello spettacolo. Sempre attivo in politica, sono da ricordare i suoi scontri verbali e tramite facebook con il presidente Donald Trump, con cui condivide il partito ma spesso non le opinioni politiche e personali.
Personaggio che rappresenta un unicuum nel suo genere, Schwarzenegger ha unito in un metatesto cross-mediale gli ambiti dello sport, del cinema e della politica, intesi tutti come spettacolo, rapporto empatico col pubblico. Fortemente intriso da una forza di volontà fuori dal comune, unito ad un talento speciale, tutto ciò ne fa la vera incarnazione moderna dell’American Dream, lui che pure è europeo. “Se fossi rimasto in Austria sarei finito a cantare lo joodle tutto il giorno senza combinare nulla”, o ancora “se avessi avuto successo in Austria mi sarei dovuto confrontare con un senso di invidia per le fortune altrui che pervade tutta l’Europa, e che invece è assente negli Stati Uniti”, sono alcune delle sue frasi ripetute più spesso.
John Milius, regista del primo Conan, disse una volta: “Se non avessimo avuto uno Schwarzenegger, avremmo dovuto inventarlo!”, e la frase vale come descrizione di una parabola forse irripetibile che ha dimostrato come a volte, con l’approccio giusto, i confini fra le discipline possono essere “mutanti” e “perforabili”, e l’ambiente mediale può diventare un palcoscenico olistico dove la Mitologia post-moderna disegna collegamenti dove lo sguardo comune sembra vedere solo confini, palizzate, filo spinato e limiti invalicabili.
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